Libri di Spedicato

Fra scritti, ricerca, misteri archeologici e la grande passione per la musica

Fra le quasi 700 pubblicazioni di Spedicato si contano una ventina di libri, fra monografie e atti di convegno di cui è stato curatore. Delle tre monografie a carattere matematico, è importante ABS projection algorithms, mathematical techniques for solving linear and nonlinear algebraic equations, Ellis Horwood, 1989. Questo libro sviluppa una nuova classe di algoritmi detti ABS (di Abaffy-Broyden-Spedicato), che permette l’unificazione di molti metodi per sistemi algebrici lineari e nonlineari, e per l’ottimizzazione. Monografia basata su una sessantina di articoli e rapporti, negli anni successivi cresciuti a circa quattrocento, risultato di una collaborazione con matematici inglesi, ungheresi, cinesi e iraniani. Approccio innovativo, che ha portato alla soluzione del decimo problema di Hilbert ridotto (problema lineare, quello generale non essendo solubile, vedasi Matjasevich). Libro tradotto in russo e cinese.

Segue informazione su quattro monografie pubblicate da Aracne su temi non matematici.

Monografia 1, Atlantide e l’ Esodo, astronomia e archeologia confermano Platone e la Bibbia, Aracne, 2014 (edizione aggiornata di precedente del 2010)

In questa monografia si considerano:

  • Gli effetti sulla Terra di impatti, di esplosioni tipo Tunguska e di passaggi ravvicinati di grandi oggetti
  • Si argomenta che sia avvenuto un passaggio con oggetto di massa circa 10 volte quella terrestre, verso il 9450 AC, e che tale oggetto abbia ceduto alla Terra un suo satellite, divenuto la Luna
  • Si argomenta che tale passaggio abbia velocemente terminato l’ultima glaciazione e la civiltà allora presente, quella associata ad Atlantide
  • Si identifica l’isola di Atlantide con l’isola di Hispaniola (ora Haiti e Santo Domingo), al tempo di Cristoforo Colombo detta Kiskeya, ovvero Madre di tutte le terre, nella lingua taino
  • Si verificano in questo contesto i dati platonici relativi ad Atlantide
  • Si considera nella seconda parte la esplosione tipo super Tunguska del probabile oggetto Cruithne chiamato Fetonte dai Greci, sopra la Germania settentrionale, causa del diluvio di Deucalione, di migrazioni, di mutamenti climatici
  • Si spiegano gli eventi dell’ Esodo con la esplosione di Fetonte, compreso il cosiddetto passaggio del Mar Rosso. Questo fu un movimento degli ebrei lungo la costa est del Sinai, a nord di Nuweiba, biblica Pi Hahirot. Gli ebrei camminarono sul basso fondale marino emerso con l’abbassamento del livello delle acque marine causa il vento prodotto dall’esplosione di Fetonte
  • Si analizza l’itinerario di Mosè nel Sinai, avvenuto seguendo le coste, passando in particolare da Baal Sefon, ora Ras Muhammad, porto e santuario dei navigatori indiani detti Tirani, dove poi Mosè prenderà il prezioso materiale necessario per la costruzione del santuario dell’ Arca dell’ Alleanza..

Nel seguito l’introduzione del libro e parte di due capitoli relativi ad Atlantide ed all’Esodo.

1 . La riscoperta delle catastrofi di origine extraterrestre

L’idea che siano avvenute in passato delle interazioni fra la Terra e corpi celesti, causando drammatici effetti geologici e biologici, compresa la formazione di montagne e la distruzione di molte specie, era comunemente accettata sino al XVIII secolo. Si vedano in particolare l’opera di Whinston (1708), un collaboratore di Newton, e varie dichiarazioni di Laplace. Nella seconda metà del XVIII secolo, principalmente per l’influenza di Lyell in geologia e di Darwin in biologia, s’impose il concetto di lenta evoluzione, dovuta a meccanismi esclusivamente terrestri, dando luogo al detto quello che si vede oggi è quello che si vedeva in passato. Verso la metà del Novecento lo studioso ebreo di origine russa Immanuel Velikovsky, dotato di straordinaria erudizione ed anche amico di Einstein, con cui produsse una importante rivista, combatté una solitaria battaglia a favore della esistenza di eventi catastrofici a memoria di uomo di origine extraterrestre, vedasi Velikovsky (1950,1953). Egli non si limitò a invocare immense catastrofi in tempi antichissimi, cui attribuire certi eventi geologici, ma sostenne anche che catastrofi relativamente minori si verificarono in tempi storici, particolarmente nei primi due millenni AC. Relazionò poi eventi come le piaghe d’Egitto e la distruzione dell’esercito di Sennacherib davanti a Gerusalemme con catastrofi naturali, in una grande opera mirante a sincronizzare le tradizioni di Israele con la storia dei popoli vicini. Questo lavoro lo portò a rivedere in modo sostanziale la cronologia degli Egizi, e delle storie correlate, in vari libri di carattere storico specialistico (Velikovsky 1953, 1960, 1977, 1978).

Non discuteremo qui la revisione storica di Velikovsky (la cronologia egizia, su cui si basa quella di altri popoli antichi, sarebbe errata di secoli, a causa di un clamoroso errore compiuto all’ inizio dell’ Ottocento da Lepsius e Champollion nel datare un certo anno sotico citato dallo scrittore latino Censorino). La tesi di Velikovsky è stata confermata dagli astronomi Clube e Napier (1982) e da storici, come Rohl (1995), James et al. (1991); ma dobbiamo osservare che i corpi extraterrestri, che ora sono considerati i più probabili agenti catastrofici, ovvero gli Oggetti Apollo, gli erano sconosciuti. Anche se il primo Apollo fu scoperto nel 1932, a metà del Novecento la loro esistenza era praticamente ignorata nella comunità scientifica; e gli astronomi non prestavano alcuna attenzione a loro possibili collisioni con la Terra.

Velikovsky, attingendo a informazioni astronomiche trasmesse da fonti antiche, consultate in anni di ricerche presso grandi biblioteche, nella sua famosa monografia Worlds in Collision, del 1950, attribuì l’origine delle recenti catastrofi terrestri ad interazioni con il pianeta Venere, e in qualche misura anche con Marte: pianeti che riteneva di origine recente e le cui orbite avrebbero preso la configurazione attuale soltanto nel corso del primo millennio AC, verso il 700 AC.

Molti argomenti furono sollevati contro queste idee, a cui Velikovsky fu in un certo senso costretto, non avendo le nostre informazioni. Tuttavia l’ipotesi che le orbite dei pianeti possano esser variate da quando esiste l’Homo Sapiens, periodo variamente stimato, da qualche centinaia di migliaia a forse più di un milione di anni, non può essere lasciata cadere. Questo per il fatto che la recente scoperta della caoticità delle orbite planetarie implica la possibilità di mutamenti assai rapidi, con effetti catastrofici, specialmente in presenza di perturbazioni del sistema solare per il passaggio ravvicinato di stelle o per l’attraversamento di nubi molecolari. Inoltre il matematico Laurence Dixon (2001) ha provato che i mutamenti di orbita proposti da Velikovsky non violano la conservazione dell’energia e della quantità di moto e sono compatibili con un numero infinito di orbite. A parte la possibile variazione delle orbite per effetti della dinamica caotica, esistono ulteriori motivazioni dello scenario di Velikovsky. Queste sono legate alla scoperta che nella fascia cosiddetta di Kuiper, situata assai oltre l’orbita di Plutone e contenente almeno mille miliardi di corpi di varie dimensioni, esistono oggetti di dimensioni forse confrontabili o superiori a quelle della Terra (ne è stato scoperto nel 2005 uno, chiamato Eris, di diametro e di massa superiori a quello di Plutone, il primo di circa 2300 km, la massa superiore del 27%). Questi oggetti, data la ellitticità delle loro orbite, possono entrare nella parte interna del sistema solare ed interagire drammaticamente con i pianeti cosiddetti terrestri. Su questa idea hanno lavorato il fisico John Ackerman, pseudonimo Angiras (1996), vedasi le sue monografie Firmament e Chaos, ed il sottoscritto, ma vedasi anche l’ ipotesi di Doron e Fargion accennata più avanti. L’analisi di questi scenari va tuttavia al di là dei limiti di questo lavoro. Discuteremo solo gli Oggetti Apollo in quanto agenti più probabili di catastrofi terrestri. Consideriamo poi la catastrofe che seguirebbe a un passaggio ravvicinato di un oggetto di grandi dimensioni, evento che riteniamo sia la spiegazione più probabile della veloce fine dell’ ultima glaciazione, nonché dell’ acquisizione della Luna.

8 . Interpretazione della storia platonica di Atlantide

Consideriamo ora nei dettagli la storia di Platone, inserendola nel nostro scenario della fine dell’ultima glaciazione. La data indicata per la catastrofe, che corrisponde a circa 11.600 anni fa, si adatta bene a quella del ritiro dei ghiacci, ora accettata verso il 11.500 AC, come indicato nei capitoli precedenti.

La città di Atlantide è localizzata da Platone al di là delle colonne d’Ercole con l’affermazione che l’oceano a quell’epoca era navigabile. Atlantide esercitava il suo dominio su isole ancora più lontane e su parti di un continente che circondava completamente il vero oceano.

La nostra proposta è che l’isola di Atlantide fosse la grande isola caraibica, incontrata da Colombo nel suo primo viaggio e da lui chiamata Hispaniola, attualmente divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana. Il nome locale, ai tempi di Colombo, era Quisqueya, che significava – si noti bene – “Madre di tutte le Terre” (un ricordo del suo ruolo dominante in epoche remote?). Questa ipotesi implica ovviamente che l’uomo vivesse in America nel corso dell’ultima glaciazione: un fatto ora confermato da crescenti prove archeologiche, che hanno suggerito una presenza addirittura verso il 30.000 AC di popolazioni giunte dall’Africa, di cui una traccia può vedersi forse nelle gigantesche teste olmeche dalle caratteristiche chiaramente africane. Sarebbe poi seguita una immigrazione di popolazioni guerriere dall’ Asia orientale e dalla Siberia, che avrebbero sterminato gli immigrati dall’ Africa. Le isole oltre l’Atlantide sono quindi nella nostra ipotesi le altre grandi isole caraibiche (Cuba, Giamaica, Portorico); il continente situato ancora più in là è l’America. Come abbiamo prima osservato, durante l’ultima glaciazione l’attuale stretto di Bering non era sommerso e costituiva un ponte fra Asia e America; l’Australia era poi quasi unita all’Asia via le isole della Sonda allora quasi tutte collegate fra di loro. Quindi un enorme continente circondava quasi da ogni lato l’Oceano Pacifico, nel quale individuiamo il vero oceano della storia di Platone. Una questione interessante è se, almeno durante l’inverno australe, i ghiacci dell’Antartide non chiudessero quasi completamente il passaggio verso l’Atlantico e l’Oceano Indiano. Che l’Antartide durante l’era glaciale avesse una maggiore estensione di oggi sembra accertato dopo le recenti missioni esplorative a cura anche dei geologi italiani guidati dal prof Giuseppe Orombelli.

Va osservato che esistono alcune fonti, che fanno pensare che nel Vecchio Mondo in epoca classica esistesse una certa conoscenza dell’America…

L’altro brano è costituito da una dichiarazione attribuita da Eliano, un autore raccoglitore di curiosità pubblicate come Storie variopinte, a Teopompo, il grande storico contemporaneo di Senofonte, la cui opera è quasi tutta perduta:

  • Ci sono due continenti sulla Terra; uno è formato da Europa, Africa ed Asia, l’altro è lontano nel mezzo dell’Oceano.
  • Nel secondo continente esistevano due grandi città: una (la capitale dell’impero di Atlantide?) abitata da un popolo bellicoso e conquistatore; l’altra (forse una delle grandi città i cui resti, in forma di enormi tumuli di terreno, si trovano nella parte centro-orientale del bacino del Mississippi?) popolata da un popolo amante della pace. Si osservi che se l’epoca atlantidea terminò ad opera di un enorme tsunami, con la fine dell’ultima glaciazione, bisogna attendersi che le acque del Mar dei Caraibi abbiano invaso gran parte del bacino inferiore e medio del Mississippi, distruggendo e spazzando via la maggior parte delle strutture edificate dall’uomo. E’ comunque possibile e forse più probabile che la situazione descritta si riferisca all’ epoca appena precedente al diluvio di Deucalione. E’ noto che in tale epoca una importante civiltà a caratteristiche urbane esisteva nel bacino del Mississippi e controllava probabilmente la miniera di rame nativo nell’ Isola Reale, di cui si è detto sopra. La fine improvvisa di questa grande civiltà del nord America attorno al 1500 AC è stata comunicata al convegno su Atlantide a Milo nel 2005. Inoltre il geomorfologo Stuart Harris ha comunicato a chi scrive di avere scoperto da foto satellitari evidenza di materiale sedimentario trasportato in quell’epoca da uno tsunami fino a circa 2000 km entro il bacino del Mississippi.

L’identificazione di Atlantide con Hispaniola è rafforzata dalla descrizione platonica dell’isola: alte splendide montagne, fiumi, laghi, una pianura, coste ripide, foreste e animali. Hispaniola ha montagne che superano i 3000 metri (il Pico Duarte raggiunge i 3175 m), alcune (per es. La Selle, 2680 m) molto vicine alla costa. L’ aspetto di tali alti monti per un osservatore dal mare dovrebbe essere comparato a quello prodotta su di un osservatore del Monte Bianco (4807 m) che guardi dal fondo della Val d’Aosta. Queste montagne potrebbero essere sembrate più alte di qualsiasi altra a un osservatore di origine greca o egizia. La rigogliosa foresta tropicale da cui Hispaniola era coperta, in epoche glaciali e sino alla recente deforestazione, era di sicuro un motivo di attrazione per dei visitatori provenienti dal bacino Mediterraneo.

E’ interessante osservare che Colombo restò affascinato dalle bellezze naturali delle isole caraibiche, un argomento ricorrente nei suoi diari. Fiumi e laghi (compresi due laghi ora sotto il livello marino, Imani ed Enriquillo) sono numerosi in Hispaniola. Il riferimento agli elefanti potrebbe non riguardare gli attuali elefanti africani (che potrebbero essere stati portati con le navi), ma la varietà americana di proboscidati (mammùt o mastodonti), che scomparvero durante la catastrofe che pose fine alla glaciazione.

Il riferimento alle coste di Atlantide, ripide e scoscese, è assai indicativo di Hispaniola, e argomenta contro un’identificazione di Atlantide con Cuba o Giamaica. Le coste di Hispaniola sono in massima parte alte e inaccessibili. Inoltre l’oceano intorno all’isola è molto profondo, quindi la forma dell’isola nei periodi glaciali, quando l’oceano era più basso di 60-130 metri, era sostanzialmente la stessa di oggi; mentre, ad esempio, Cuba era notevolmente più estesa e una grande isola era situata nel punto in cui ora si trovano le Bahamas.

Una pianura approssimativamente rettangolare giace nell’angolo sud-orientale di Hispaniola, dove trovasi Santo Domingo, con una catena di colline sul lato nord (quelle che proteggevano dai venti, assai forti nello Younger Dryas?). Questa potrebbe essere la pianura irrigata descritta da Crizia. Se è così, allora la capitale, Atlantide, dovrebbe essere situata in un punto ora sommerso, lungo la parte meridionale della Repubblica Dominicana, alla profondità di 60-130 metri. Un’altra località potrebbe essere la zona pianeggiante, limitata da montagne sia a nord che a sud, chiamata “Plaine de Cul-de-Sac” e comprendente numerosi laghi e in particolare il lago Enriquillo. Un lago questo molto salato, popolato anche di caimani, e la cui superficie è sotto il livello del mare (a –44 m). Tutta quest’area era occupata dal mare nel Quaternario, v. Butterlin (1954), e potrebbe contenere delle strutture coralline, ora coperte da recenti sedimenti.

Le notizie in Platone su strutture ad anello della parte centrale della capitale di Atlantide e le pietre colorate là utilizzate nelle costruzioni, fanno pensare ad un anello corallino, emerso quando l’inizio della glaciazione abbassò il livello degli oceani. Possiamo qui notare che mentre di solito i coralli sono rossi, nei Caraibi sono di tre colori, rossi, gialli e grigi. E’ quindi ipotizzabile che coralli fossili di tali colori furono utilizzati nella costruzione degli edifici di Atlantide capitale, parlando Platone di tre colori, anche se non si ha qui una perfetta corrispondenza dei colori, che potrebbe comunque spiegarsi in vari modi. Si ricordi che si sono spesso usate pietre di origine corallina nella costruzione di città. Un esempio è Yanbu, porto di Medina in Arabia, che nell’ Ottocento era ancora costruita tutta con blocchi tagliati dalle formazioni locali di corallo.

Il testo platonico afferma che Atlantide era più vasta della Libia e dell’Asia insieme e che la pianura irrigata si estendeva per circa 600 per 400 km (un km valendo cinque stadi circa). Nelle recenti ere geologiche non si riscontra alcuna terra scomparsa con tali dimensioni, e nessuna pianura così estesa e dalle stesse caratteristiche esiste attualmente; e nemmeno ai nostri giorni l’uomo è capace di irrigare completamente un territorio di quelle dimensioni. I dati del testo sono errati. Ma noi crediamo che trasmettano delle notizie genuine, sebbene inserite nel testo in modo errato, molto probabilmente per una caduta di memoria di Crizia.

La nostra opinione è che il riferimento alle dimensioni di Atlantide riguardi il continente trans-atlantico, cioè l’America, di cui una parte secondo il racconto era sotto il dominio atlantideo; oppure riguardi l’ intero impero di Atlantide, che comprendeva anche parte dell’Europa e dell’Africa. Le dimensioni della pianura sono assai vicine alle dimensioni di Hispaniola (che resterebbero sostanzialmente immutate, se il livello marino si abbassasse di 60-130 m), ovvero di 650 per 300 km. Quindi è probabile che l’ultimo riferimento riguardi l’isola stessa di Atlantide.

Infine possiamo fare un’ulteriore interessante osservazione. Bartolomeo de Las Casas, che visitò gran parte del territorio americano conquistato dagli Spagnoli nella prima metà del Cinquecento, e divenne poi vescovo del Chiapas, in Messico, scrisse un importante libro sullo sterminio degli indios da parte degli Spagnoli. La sua descrizione dell’ isola Hispaniola sembra ricalcare esattamente quella di Platone dell’ isola di Atlantide. Questo comprende il riferimento alle montagne, alla pianura, alla grande quantità di fiumi (20.000 dice), alla ricchezza del suolo ed alle miniere di rame ed oro, il cui sfruttamento fu uno dei motivi che portarono allo sterminio degli indigeni (e distrutta la locale popolazione dei Taino, per continuare lo sfruttamento delle ricchissime miniere gli Spagnoli importarono migliaia di indios dall’ attuale Venezuela, anch’ essi condannati a perdere la vita in quelle miniere…).

Alcune considerazioni finali, sull’asserzione che Atlantide dominava il Mediterraneo occidentale …

Nel Collectanea rerum memorabilium, un fondamentale testo di Iulius Solinus Polihistor di cui stranamente non sono disponibili traduzioni moderne, sta scritto che dalle isole Gorgonidi è possibile, seguendo una locale corrente, raggiungere una grande isola oltre l’ oceano ed il continente ivi vicino. Le isole Gorgonidi sono identificabili, vedasi Collins (2000), con le isole del Capo Verde, importante fonte di sale che veniva esportato nell’ Africa sahariana in cambio di oro ed avorio. Da tali isole parte una corrente che permette di raggiungere Trinidad e la Guyana in circa una settimana anche con navigli assai primitivi (capita ancora oggi a barche di pescatori senegalesi).

Nella Descriptio orbis terrae Avieno descrive un territorio oltre l’ Atlantico dove si incontra un tratto di mare non salato, poi seguendo la costa si procede a est e, raggiunto un promontorio, si ritorna verso ovest, sino ad arrivare ad un grande fiume alla cui foce sta una città. Questa appare essere la descrizione della costa del Brasile, con il tratto dove le acque del Rio delle Amazzoni diluiscono la salinità del mare. Dopo il Capo San Rocco la costa cambia direzione verso sud-ovest e si raggiunge la foce dell’ attuale Rio San Francisco. Risalendo il San Francisco e poi immettendosi nel Paranà e nel Pilcomayo tramite un breve passaggio via terra è possibile raggiungere la regione delle miniere di argento di Potosì. E’ stato ipotizzato, vedasi De Mahieu (2002), che i Templari conoscessero questa via e importassero argento dalla Bolivia, con il quale finanziarono la costruzione delle cattedrali gotiche. Ora i naviganti indiani Pani erano sicuramente esperti navigatori di fiumi, un tipo di navigazione in passato non sempre facile, data la mancanza di argini fluviali. Avendo i Pani navi smontabili, potevano portarne a spalle i pezzi smontati anche per tratti terrestri di una certa lunghezza. E’ allora ipotizzabile che la conoscenza dell’ argento di Potosì risalisse a tempi ben più antichi dei Templari, ovvero ai Pani ed ai loro parenti i Fenici, e che i Templari l’avessero ricevuta in Palestina da qualche famiglia discendente dai Fenici.

3 . Fetonte e il passaggio del Mar Rosso

Presentiamo ora uno scenario che spiega gli eventi dell’Esodo, ed altri riferiti da Orosio, in termini dell’ interazione della Terra con un oggetto celeste di moderata grandezza, forse del diametro di pochi km. Identifichiamo tale oggetto con il Fetonte (Phaethon, lo splendente in greco) della mitologia greco-latina. Fetonte deve essere stato catturato dal nostro pianeta in un tempo che non possiamo determinare esattamente, ma successivo alla guerra omerica dove appare, con Lampos, come un oggetto tranquillo nel cielo, visibile solo poco prima del sorgere del sole. Si noti pure l’ assenza di riferimenti a Deucalione in Omero, il che indica nella nostra cronologia una datazione per l’ epica antecedente al 1447 AC, in accordo con l’ approccio di Vinci, che la pone nell’ ottimo climatico. Fetonte e Lampos sono probabilmente identificabili in Oggetti Cruithne, oggetti di nuova scoperta astronomica che seguono il nostro pianeta nella sua orbita avvicinandosi, quindi arrestandosi ed allontanandosi, in un moto pendolare speciale. Attualmente ne sono noti almeno due, diametro sulla decina di km. Tali oggetti possono per perturbazione esterna (Venere, come proposto da Velikovsky?) avvicinarsi troppo alla Terra, e schiantarsi su di essa, dopo un eventuale periodo di rotazione con orbita irregolare attorno ad essa. Nei testi classici a me noti non appare la fine di Lampo, possiamo allora ipotizzare che si sia presto schiantato lontano dal mondo mediterraneo. Le eruzioni dei vulcani della Dancalia cui vanno attribuite le dieci piaghe di Egitto suggeriscono un impatto sull’Africa. Dovrebbe quindi in Africa esistere un cratere databile a circa il 1500 AC. Recentemente sono stati individuati vari crateri in Mauritania, vedi dell’ Aglio (2003), ed uno nel sud dell’ Egitto, la cui datazione non è definitiva ma potrebbe risalire al periodo considerato.

La fine di Fetonte non fu così rapida. Per molte settimane dovette ruotare attorno alla Terra in un’orbita instabile, scendendo a spirale verso gli strati superiori dell’atmosfera. Fetonte doveva emettere gas e polveri caldissime, il che ne spiega la descrizione nel libro dell’Esodo come di un qualcosa luminoso di notte e fumoso di giorno. Dovette subire episodi di frammentazione, che causarono l’entrata nell’atmosfera di polveri e forse impatti di suoi frammenti. Il nucleo infine esplose, in un evento di tipo super-Tunguska, sul fiume Eider situato fra Danimarca e Germania. Gli effetti dell’esplosione raggiunsero il Mar Rosso, provocando gli eventi descritti sopra e associati al cosiddetto “passaggio” del mare. In particolare, permisero agli Ebrei di sfuggire a un’impasse e distrussero poi l’esercito egizio lanciato al loro inseguimento…

La nostra teoria convalida virtualmente tutti i punti dei testi biblici e spiega i dati ricavati dalla mitologia greca e latina relativamente a Fetonte e a Deucalione. Identifica pertanto la più recente delle tre grandi catastrofi che secondo Platone colpirono il nostro pianeta a memoria di uomo; e fornisce una spiegazione delle grandi migrazioni che ebbero luogo in Eurasia al tempo dell’Esodo (fra cui gli Amu-Amalek-Hyksos e i Danai-Achei-Troiani). Dal nostro scenario consegue che le asserzioni di Finkelstein e al. (fra cui teologi che insegnano nei seminari cattolici italiani!!), secondo le quali il racconto dell’Esodo sarebbe una invenzione tarda o addirittura Mosè, Davide e Salomone non sarebbero mai esistiti, sono infondate. Elimina infine la spiegazione degli eventi dell’Esodo come conseguenza della grande eruzione del vulcano di Thera/Thera. Tale proposta è andata comunque in crisi nel 2006 quando una datazione al radiocarbonio più sicura, fatta su un ramo di ulivo trovato sotto le ceneri, ha arretrato di circa 180 anni la data prima accettata del collasso della caldera di Thera, con grave imbarazzo degli egittologi. Nel nostro scenario tale nuova datazione si accorda bene sia con il poco citato diluvio di Inaco che con l’inizio della grande carestia nella regione del Mediterraneo Orientale cui si riferiscono i famosi biblici sette anni di vacche magre, quando viceré d’Egitto era Giuseppe figlio di Giacobbe. Quindi il diluvio di Inaco, avvenuto secondo le fonti classiche sette generazioni prima di quello di Deucalione, potrebbe spiegarsi con il collasso della caldera del vulcano di Thera e gli anni di carestia con le conseguenze climatiche di quella eruzione.

Secondo il libro dell’Esodo, Mosè ottiene dal faraone, di cui non è dato il nome, il permesso di lasciare l’Egitto dopo le Dieci Piaghe, durate probabilmente parecchi mesi. Non spiegheremo qui in dettaglio tali Piaghe, associabili alla caduta di Lampos, e al risvegliarsi dei vulcani della Dancalia con protratte emissioni di polveri. L’eruzione a Thera, localizzata a circa 950 km da Heliopolis, l’antichissimo centro sacro egizio, è stata spesso considerata la causa delle Dieci Piaghe. Tuttavia, a parte il citato problema cronologico emerso nel 2006, è ben difficile capire come tale eruzione possa aver causato l’arrossarsi delle acque del Nilo, che divennero anche velenose, o l’oscurarsi completo del cielo. Osservando come siano pochi i vulcani nel Mediterraneo, quasi tutti in Italia (Italia è parola derivabile, come proposto da Vinci (1998), dal greco Aithalia, ovvero Terra che fuma, a causa dei molti vulcani attivi) dobbiamo considerare i molti vulcani nella penisola arabica, e specialmente nella depressione dancalica, tra Etiopia ed Eritrea. Qui, a circa 2100 km da Heliopolis, esiste la più alta concentrazione mondiale di vulcani, un centinaio, molti dei quali di piccole dimensioni, indicative di una origine recente. Una parte della regione è detta Afar, termine applicato anche a una tribù locale, e che in accadico e in genere nelle lingue semitiche significa polvere, sabbia, v. Semeraro (2001). E’ possibile che il termine Africa origini da afar, e quindi abbia il significato di Terra della polvere (vulcanica). Potremmo anche ipotizzare che il nome Mar Rosso, Erythraeum Mare, applicato attualmente a un mare noto per la chiarezza e l’azzurro profondo delle sue acque, fra Arabia ed Africa, ma in passato a gran parte dell’ Oceano Indiano, risalga a quando le frequenti eruzioni della depressione dancalica causavano l’arrossamento delle acque, con il depositarsi sull’ oceano delle pomici prodotte dalle eruzioni in Dancalia. E’ noto che le pomici possono formare immense isole galleggianti per la durata di settimane, essendo costituite da materiale roccioso leggerissimo, saturo di bollicine di aria. E’ invece meno noto che le pomici, usualmente di colore grigio-rosa, quando siano a contatto durante l’eruzione con acqua salata, assumono un colore carminio, rosso sangue. Tale fatto è stato osservato nei sedimenti formati dalla grande eruzione nel 1883 del vulcano Krakatoa, fra Giava e Sumatra. Si è trovato infatti uno strato di pomice di tale colore, spesso circa 10 cm, corrispondente a quando il materiale fu eruttato mentre sprofondava il soffitto della camera vulcanica, mettendo il magma a contatto con l’acqua marina. La depressione di Dancalia è ora quasi del tutto asciutta ma ha il fondo coperto di sale, il che suggerisce che in passato e probabilmente all’epoca dell’Esodo fosse almeno in parte ricoperta di acque salate, le quali, interagendo con le pomici, potevano dare il colore rosso. Va detto che lo studio geologico degli eventi in Dancalia è ancora embrionale, come comunicatomi dal prof Abate dell’ Università di Firenze, capo della spedizione italiana in Dancalia. Cento vulcani di certo potrebbero oscurare il cielo più dei pochi vulcani mediterranei, anche trovandosi a una distanza doppia. Inoltre, poiché i venti etiopici originano da NO e da SE, essi spingerebbero la polvere vulcanica sull’altipiano etiopico, attraversato da fiumi che finiscono nel Nilo. Ne consegue che nel corso di una intensa attività vulcanica in Dancalia, le acque provenienti dall’Etiopia via il Nilo Azzurro sarebbero cariche di polvere vulcanica, conterrebbero dei composti velenosi e colorerebbero di rosso intenso le acque del Nilo. Un’interessante conferma viene anche dalle Storie di Pompeo Trogo, il cui originale è perduto ma ne sopravvive una sintesi nella epitome di Giustino. Trogo afferma che all’inizio dell’esondazione del Nilo per circa due giorni le acque erano di colore rosso, segno che ai suoi tempi la Dancalia era ancora vulcanicamente attiva, sebbene con intensità minore che all’epoca dell’ Esodo, o il materiale depositato era ancora in parte presente. Le eruzioni della Dancalia danno quindi una soddisfacente spiegazione della prima piaga. Questa sarebbe invero inspiegabile se la polvere provenisse da Thera, poiché essa si sarebbe posata soprattutto nel deserto egizio senza essere trasportata nel Nilo dalle piogge, il Nilo non avendo affluenti da tale territorio, e le piogge essendo inoltre quasi inesistenti. Tale polvere da Thera dovrebbe inoltre essere ben visibile tuttora. Una spiegazione la nostra mai considerata nella letteratura…

Al momento in cui Mosè lascia l’Egitto dobbiamo ritenere che Fetonte fosse ancora in orbita e si muovesse, osservato dall’area di Goshen nel Delta orientale in cui si trovavano gli Ebrei costretti alla fabbricazione di mattoni (certamente solo una parte degli Ebrei viventi in Egitto!), su di un’orbita tale da sembrare giungere da SE, cioè dall’Oceano Indiano e dall’Arabia, muovendosi in direzione NO, cioè verso la Grecia, i Balcani e la Germania. La direzione SE è compatibile con l’identificazione della terra di Canaan, la terra del latte e del miele, in cui si era stabilito Abramo e dove Mosè voleva ricondurre il suo popolo, con la regione proposta dallo storico libanese Salibi (1988, 1996), ovvero la parte dell’Arabia SO, ora chiamata Asir. L’ identificazione della Terra di Canaan con l’ Asir, fondata da Salibi sulla analisi di centinaia di toponimi presenti nel Pentateuco, contrasta con l’identificazione standard di Canaan con la Palestina. Salibi è stato ignorato dalla maggior parte degli studiosi (forse causa le implicazioni politiche), nonostante sia il maggior storico del mondo arabo del Novecento; di simile gravità è ignorare gli storici arabi medioevali nello studio della storia antica. Riteniamo validi gli argomenti geografici di Salibi, supportati anche dalla nostra analisi, Spedicato (2000), della distribuzione degli Ebrei attorno al 1175 AD, secondo Beniamino di Tudela. La tesi di Salibi rende invalide le obiezioni alla storicità della Bibbia da parte dei citati Finkelstein et al. Su alcune ricostruzioni storiche di Salibi, e sul suo porre il Giardino dell’ Eden dove l’ Asir ad oriente declina nel deserto del Rub-al-Khali, abbiamo invece varie obiezioni…

La nostra ipotesi sul moto orbitale di Fetonte spiega la colonna d luce e di fumo. Il nucleo di Fetonte doveva essere attivo, come il nucleo di una cometa vicina al Sole. Quindi doveva emettere gas e polveri, che apparivano durante il giorno come fumo, con abbondante attività termica ed elettrica, che ne facevano una sorgente di luce nella notte. E’ assai improbabile che Fetonte si trovasse su di un’orbita geostazionaria. Quindi appariva in moto e la direzione dove andare, ovvero quella dell’ Asir a SE, Mosè la indicò agli Ebrei come il punto nel cielo in cui appariva il nucleo. Tale fatto si sarebbe ripetuto più di una volta al giorno, quando Fetonte fosse sceso sotto l’ altezza corrispondente all’ orbita geostazionaria.

Discuteremo nell’Appendice l’itinerario seguito da Mosè. Qui consideriamo il giorno cruciale in cui gli Ebrei, minacciati di distruzione da parte dell’esercito egizio, effettuarono il celebre “passaggio” delle acque del Mar Rosso, mentre l’armata egizia lanciata al loro inseguimento veniva annientata.

Da Giuseppe Flavio sappiamo che Mosè si trovava in una ristretta zona tra il mare e montagne insuperabili. Giuseppe Flavio era uomo di grande sapere e grande sacerdote, cui Tito consegnò la biblioteca del Tempio di Gerusalemme, di certo contenente documenti oggi perduti, come le genealogie delle persone importanti, come riferito in un vangelo apocrifo. Quanto riferisce è da considerarsi attendibile in generale. Il passo citato è importante. Mosè si trovava in un punto in cui fronteggiava montagne insuperabili, che scendevano direttamente nel mare. Questa informazione geografica esclude che l’evento abbia avuto luogo lungo le coste del Mediterraneo, come suggerito per es. da Goedicke (1987) o Anati (1997), poiché qui la costa del Sinai è piatta e mancano completamente montagne “insuperabili”. Esclude la zona di Suez o la costa del Sinai lungo il golfo di Suez, come suggerito per es. da Barbiero (1988), Philips (2002) e Manher (2005), perché o non ci sono montagne o esse non sono vicine alla costa (supponendo che il livello del mare non sia cambiato significativamente rispetto al tempo dell’Esodo). Esclude anche la maggior parte della costa dell’Arabia, caratterizzata da una lunga e stretta pianura, la Tihamah, che si alza rapidamente con una serie di scarpate sino all’altopiano arabico occidentale, dove raggiunge i 3000 metri di altezza nell’Asir (il nome della scarpata, assai difficile da attraversare, è Giordano, una parola inattesa, che costituisce un punto importante in Salibi; molto curioso anche che la maggior parte degli atlanti non mostri questa scarpata, ad eccezione per es. il Times Atlas, edizione 1976). Una costa che soddisfa le condizioni di Giuseppe Flavio è quella del Sinai lungo il Golfo di Aqaba. Circa a metà di questa costa, presso Nuweiba, le montagne, che si alzano pochi km più all’interno, lasciando una stretta piana costiera ora molto sfruttata come zona turistica, raggiungono il mare. Quindi a nord di Nuweiba la strada per Eilat prosegue per il pendio montuoso direttamente sopra il mare e poi si addentra per una valle interna attraverso un passo di modesta altitudine (vi passai in bus nel 1975, ricordo la bellezza dello scenario e il colore rosa delle sabbie). Perciò il brano di Giuseppe fa pensare, per quanto riguarda l’attraversamento del mare, a un punto circa a metà della costa orientale del Sinai, di fronte al Golfo di Aqaba. La località precisa, la Pi-Hahirot della Bibbia, è, secondo la discussione fatta più avanti, da identificarsi esattamente con l’area deltizia e pianeggiante di Nuweiba. E Mosè doveva essere accampato nel punto più a nord della piana di Nuweiba, davanti al mare e alle montagne.

Mosè probabilmente conosceva la strada che decise di prendere, quando uscì dall’Egitto, strada che non era la solita e la più breve, meta finale Canaan. Aveva vissuto per molti anni in Arabia, dopo aver sposato Zipporah, figlia di Iethro, uomo di potere religioso e politico a Madian, forse l’attuale Medina, chiamata Yathrib al tempo di Maometto (in ricordo di Yethro?), a poche centinaia di km dal Sinai. Zipporah non era la prima moglie, dato che secondo le Leggende di Ginzberg ne aveva avuto almeno un’altra, di nome Adonia, a Kush, dove si trovava per ragioni militari; più avanti identificheremo Kush non nel Sudan-Etiopia, come solitamente si ipotizza, ma nel nord Afghanistan, probabilmente l’attuale provincia del Badakhshan, o anche nel Kashmir. Dato che i pastori spesso accompagnano le loro greggi su lunghe distanze (quelli tibetani e mongoli ancora recentemente percorrevano migliaia di km all’anno con queste) è assai probabile che Mosè avesse viaggiato ampiamente in Arabia e nelle regioni vicine. Inoltre doveva avere conoscenza anche di luoghi in cui non visitati personalmente dai discorsi con altri pastori, o con mercanti o a causa della sua precedente esperienza come ufficiale militare. Perciò il fatto di trovarsi bloccato tra mare e montagne impassabili non può essere imputato a ignoranza della strada presa.

La nostra spiegazione è che, dopo la sua ultima visita in quella zona, era accaduto un evento catastrofico, che aveva bloccato la strada. Si era trattato assai probabilmente di una frana, che aveva chiuso la strada che passava per una strettoia tra le montagne e il mare. Certo di frane ce n’erano state sulle montagne del Sinai, nel corso dei terremoti provocati dalla caduta di Lampo e dalle successive eruzioni vulcaniche. In particolare delle frane dovevano esserci state nel corso della Nona Piaga, quando si ebbero tre giorni di oscurità. Questa può essere spiegata con le polveri vulcaniche delle eruzioni in Dancalia o anche da episodi di frammentazione di Fetonte, con impatti dei frammenti nella regione egizio-arabica. Parecchi crateri di origine relativamente recente esistono in Irak, Arabia e Oman, per non parlare di un esteso campo di tectiti nell’Arabia settentrionale; vedasi Master (2001) su di un cratere di recente ritrovamento e di datazione compatibile con la nostra dell’Esodo. Una frana in un declivio montuoso instabile può essere prodotta da un modesto terremoto, per cui non costituisce problema la mancanza di riferimenti a un terremoto nella descrizione della Nona Piaga; l’oscurità assoluta che si verificò era già terrificante di per sé. Ora una grande frana che blocca una strada richiede molto lavoro per essere rimossa, impresa che non può esser compiuta in poche ore o pochi giorni. Anche se la profondità del mare fosse stata solo di un paio di metri, superare una frana entrata nel mare per un centinaio di metri sarebbe stato praticamente impossibile.

Abbiamo quindi uno scenario in cui Mosè e gli Ebrei (il cui numero verrà preso in considerazione più avanti) si trovavano presso una spiaggia, avendo a sud l’esercito egizio pronto ad attaccarli e a nord montagne inaccessibili ed il mare. A questo punto riconsideriamo la sequenza di eventi, dai testi prima citati, di naturale interpretazione nel presente contesto:

  1. L’Angelo di Dio che si muoveva davanti al campo dei figli di Israele cambiò posizione e si spostò dietro loro. Anche la colonna di fumo cambiò posizione e passò dietro di loro, arrestandosi tra il campo di Israele e gli Egizi. Scese l’oscurità.
  2. Prima del Passaggio…le montagne saltarono come montoni, le colline come gli agnelli del gregge…
  3. Mosè sollevò la mano sul mare e il Signore spostò il mare con un forte vento proveniente da Sud, che soffiò per tutta la notte, asciugò il mare e divise l’acqua. I figli di Israele entrarono tra le onde del mare camminando sul fondo asciutto.
  4. Gli Egizi cominciarono a seguirli ed entrarono tra le onde del mare, tutti i cavalieri e i carri. Ora accadde che allo spuntar dell’alba il Signore guardò il campo degli Egizi, all’interno della colonna di fuoco e di nuvole, e vi gettò la confusione, bloccando le ruote dei carri e agitandoli violentemente.
  5. Il Signore disse a Mosè: Stendi la tua mano sul mare, così che le acque tornino indietro e coprano gli Egizi, i loro carri e i loro cavalieri. Allora Mosè stese la sua mano sul mare e allo spuntar dell’alba le acque tornarono indietro al posto di prima; gli Egizi correvano verso le acque e il Signore li gettò nel mezzo del mare. E le acque ritornando coprirono i carri, i cavalieri e tutto il resto dell’esercito, che era entrato nel mare dopo di questi; non sopravvisse un uomo solo.

Le affermazioni citate sono prese dalla Septuaginta, tranne la seconda, che proviene dai Salmi, e che abbiamo utilizzata inserendola nella sequenza logica temporale del nostro scenario. Spieghiamo i fatti di cui sopra nel modo seguente.

  1. L’Angelo di Dio, associato di giorno col fumo, è un corpo celeste che lentamente scende verso la Terra con un’ orbita a spirale; lo identifichiamo con il Fetonte della mitologia greca. Il brano dell’Esodo sembra descrivere lo stadio finale della sua evoluzione. Si produce una parziale frammentazione, con la parte principale che prosegue l’ originale movimento verso NO, che terminerà in un’esplosione al di sopra del fiume Eridano (Eider). Altri frammenti cadono o si dissolvono nell’ atmosfera, sotto gli occhi di Mosè e nella direzione dell’armata egizia, a sud del punto in cui erano gli Ebrei, oscurando il cielo e bloccando i movimenti degli Egizi. L’evento deve aver avuto luogo di giorno, forse nel pomeriggio. Chi scrive volando nell’ aprile 2008 da Mascate al Cairo ha osservato nella regione NW dell’ Arabia Saudita, di fronte al Sinai, un repentino cambio di colorazione del deserto, da bianco a rossastro, con ritorno del bianco dopo circa una settantina di km. Gli wadi che escono da tale regione non hanno tracce di colore rosso, che ci dovrebbe essere se il materiale rosso fosse esistito da lungo tempo, in particolare quando la regione ora desertica era piovosa. Tale regione potrebbe corrispondere a quella investita dalle polveri perdute da Fetonte. In foto satellitari appare una macchia rossastra allungata per circa 300 km nella direzione che abbiamo proposto per il moto di Fetonte.
  1. Poco dopo la frammentazione Fetonte raggiunse gli strati superiori dell’atmosfera, probabilmente al di sopra del Mediterraneo, procedendo lungo un’orbita quasi tangenziale (come avvenne per l’ evento Tunguska, del 1908, dove la scia del corpo fu osservata già sopra la Cina occidentale, quindi per migliaia di km). Il contatto con l’atmosfera generò inizialmente un’onda di calore che raggiunse la superficie della Terra. Creta si trovava probabilmente circa sotto la traiettoria di Fetonte, quindi nelle sue città e sui suoi monti boscosi si svilupparono incendi. Continuando Fetonte passò sopra la Grecia, i Balcani e l’Europa centrale, all’epoca una grande foresta. In queste regioni l’onda di calore incendiò le foreste. Man mano che Fetonte scendeva, cresceva la pressione dell’aria e saliva la sua temperatura interna. Giunta questa a livelli altissimi, esplose sopra il fiume Eider, sito circa fra Germania e Danimarca di oggi. Dovette trattarsi di una enorme esplosione, incomparabilmente più potente di quella della Tunguska. Fu osservabile a grande distanza, a centinaia di km. Dovette essere visibile anche una coda luminosa estesa lungo la galleria temporanea vuota prodotta nella penetrazione dell’atmosfera, fatto tipico nei casi di grandi bolidi e che spiega la diceria che Fetonte era stato distrutto da una folgore di Giove. L’esplosione avvenne presso l’Eridano, un fiume che va identificato con l’attuale Eider, nello Schleswig-Holstein, e non con il fiume Po, come di solito si pensa. L’identificazione con l’Eider si fonda sulle seguenti considerazioni:

– Da Luciano, vedasi il brano citato, e da altri autori, le sorelle di Fetonte ne piansero la morte con lacrime d’ambra. Ora l’ambra si trova nel Mare del Nord presso la Danimarca, e nel Mar Baltico, ma non nel Mediterraneo. L’esplosione deve aver frantumato gli strati sedimentari superiori nel mare intorno alla Danimarca, liberando l’ambra giacente sotto molti metri di sedimenti e non disturbabile da sommovimenti di tempeste normali. Quindi l’evento deve aver prodotto un aumento della disponibilità di ambra. Da Spanuth (1979) sappiamo che nel medioevo grandi quantità di ambra si trovavano facilmente sulle spiagge specie dopo le tempeste. Se ne trovavano persino grossi blocchi, pesanti quintali, che venivano bruciati per scaldarsi, quando non erano di qualità commerciabile..

– Sino al XIV sec., ancora secondo Spanuth, i fiumi Eider e Schlei, l’uno ora sfociante nel Mare del Nord, l’ altro nel Mar Baltico, erano collegati e fornivano un canale fra i due mari, che evitava la circumnavigazione dello Jutland. Il passaggio era difficile nel medioevo, ma potrebbe essere esistito e più facile in epoca precedente, e quindi rappresentare una delle vie più importanti di navigazione. E’ stato sostenuto da Wirth (2002) che le costellazioni celesti, di solito chiamate con nomi di animali o di eroi, hanno tali nomi presso il popolo, mentre il vero significato non è connesso né ad animali né ad eroi. Le costellazione in realtà rappresentano delle mappe segrete delle coste dell’Atlantico e del Mediterraneo o di passaggi importanti per la navigazione. In altri termini le stelle di una costellazione sarebbero state selezionate formare una mappa celeste, utile ai naviganti. Esiste una costellazione di nome Eridanus. La sua forma non ha alcuna relazione con il percorso del Po , ma possiede una netta somiglianza con il profilo a zigzag del fiume Eider.

Gli elementi citati confermano l’ identificazione dell’Eridano con il fiume Eider. Non sappiamo a che altezza sia esploso Fetonte, né quale fosse la sua energia. Una dettagliata discussione degli effetti dell’esplosione necessita ovviamente di tale conoscenza. Se è restata una tale memoria del disastro, connesso come vedremo con il diluvio di Deucalione, la più recente delle tre grandi catastrofi a cui allude Platone, deve essere stato un evento di enorme potenza. In seguito discuteremo alcuni degli effetti verificatisi nel nord Europa. Ora osserviamo alcune conseguenze dell’ evento importanti nello studio dell’Esodo:

A – L’esplosione deve aver compresso il suolo in Danimarca e causato un tremendo terremoto, avvertibile su gran parte dell’Eurasia e dell’Africa, quindi nel Sinai. Le onde sismiche viaggiano a grande velocità, tra i due e i sei km al secondo, a seconda del tipo di roccia che attraversano. Il Golfo di Aqaba si trova a circa 3500 km dall’Eider, il terremoto dovrebbe esser giunto dopo qualche decina di minuti.

B – L’esplosione condurrebbe a una rapida propagazione dell’onda di pressione atmosferica, sotto forma di vento caldo, la cui temperatura e velocità diminuirebbero allontanandosi dal punto di esplosione, mentre aumenterebbe la durata del vento. Il calcolo di tali effetti costituisce un compito matematico assai complesso, che richiede, oltre all’ informazione sulla altezza e l’energia dell’esplosione, una conoscenza dettagliata della forma della superficie terrestre e del fondo marino. Stime preliminari, ma relative al caso di un oggetto che cada in mare, si trovano in Strelitz (1979). Per ulteriori approfondimenti vedere Appendice 3.

Da A deriva una spiegazione immediata della citata frase dei Salmi: il terremoto dovuto all’esplosione raggiunge il Sinai con gran violenza, e scuote le montagne che saltano come montoni, come riferisce il Salmo citato. Da B abbiamo la spiegazione del vento che soffia durante la notte, forse per parecchie ore. Il testo della Septuaginta sostiene che fosse un vento proveniente da sud, il testo masoretico parla di un vento proveniente da est. Il vento non giungeva né da sud né da est (le differenze nei testi possono forse attribuirsi alla stranezza del vento, che sarebbe dovuto provenire da sud, ma che appariva provenire da un’altra direzione). Ora un vento proveniente da sud dovrebbe essere un vento caldo, poiché i venti caldi in Egitto provengono da sud, i venti freddi da nord, una naturale verità confermata dal seguente brano della Pistis Sophia, vedasi Biblioteca Adelfi 380, 1999 , in cui si suppone che a parlare sia Gesù:

… Quando il vento viene dal nord voi sapete che sarà freddo, quando il vento viene da sud sapete che sarà caldo e secco…

Prima di proporre la nostra spiegazione sul “passaggio” del Mar Rosso, osserviamo questo mare su un globo terrestre. É lungo circa 2500 km, largo mediamente 200, termina con lo stretto (largo oggi circa 30 km, forse erano meno all’epoca dell’Esodo) di Bab el Mandeb (parola significante porta delle lamentazioni, forse in ricordo proprio di questo disastroso evento). Inoltre è perfettamente allineato con la direzione di propagazione radiale di un’onda atmosferica, cioè di un vento, originante dalla zona del fiume Eider. Ora un forte vento, che soffi per parecchie ore sopra il Mar Rosso da quella direzione, spingerebbe le sue acque verso il Bab el Mandeb, con due effetti:

  • Quello di abbassare il livello del mare nella parte settentrionale, specie nel Golfo di Aqaba (e di Suez);
  • Quello di accrescerne il livello nella parte meridionale.

In altre parole, l’esplosione di Fetonte dovrebbe aver generato nel Mar Rosso degli effetti simili a quelli oggi prodotti dalla Borea nel Mar Adriatico (le acque alte e basse che tanto disturbano i veneziani), ma su una scala molto maggiore. Abbiamo perciò un meccanismo che spiega l’abbassamento delle acque del Mar Rosso nella parte settentrionale, e l’ affermazione che il fondo del mare era asciutto, ovvio effetto di un vento caldo. Di quanto il mare si abbassasse, è impossibile dire senza un calcolo matematico (computo in cui dovrebbero comparire come parametri energia e altezza dell’esplosione), ma è chiaro che se il problema di Mosè era come evitare una frana, anche un abbassamento del livello marino di pochi metri sarebbe stato sufficiente per superare l’ostacolo, camminandogli attorno sul fondo asciutto del mare.

Quindi interpretiamo il passaggio del Mar Rosso nonVIENE come il procedere degli Ebrei da una costa all’altra, ma come il superamento di una frana, camminando essi sul fondo del mare che improvvisamente divenne accessibile e asciutto vicino alla costa.

Possiamo anche spiegare la difficile frase

… il Signore… divise le acque. I figli di Israele penetrarono tra le onde del mare camminando sul fondo asciutto, mentre le acque formavano un muro alla loro destra e alla loro sinistra.

 Il Golfo di Aqaba è in genere assai profondo, sui 1600 metri mediamente. Ma di fronte a Nuweiba, dove nel nostro scenario avvenne il passaggio, il mare è poco profondo, con spiaggia sabbiosa. Esiste inoltre un rilievo sottomarino, che emergerebbe come una specie di diga lunga alcuni km in caso il mare si abbassasse di qualche metro. Questo fatto è vero oggi e potrebbe non essere stato vero anche al tempo di Mosè, essendo quella una regione tettonicamente attiva. Ma se così era anche allora, il mare sarebbe apparso diviso per alcuni km. Era notte con una visibilità parziale forse di solo qualche km dovuta ai raggi solari riflessi dalle polveri dell’ esplosione di Fetonte… Quindi gli Ebrei non si accorsero che la separazione del mare era solo parziale. Quanto al passaggio fra due pareti di acqua, nella prima versione di questo libro del 2010 lasciai l’ affermazione senza spiegazione. Ora posso dire, grazie a comunicazione personale di Mauro Biglino, traduttore letterale del codice biblico consonantico di Leningrado, il più antico esistente, che la frase non esiste nel testo originario, che parla solo di protezione offerta dalle acque. Che le traduzioni esistenti della Bibbia, già otto al suo tempo, lamentava Agostino, facciano arbitrarie aggiunte o variazioni è fatto noto e confermato in Biglino (2011).

Ora consideriamo la distruzione dell’esercito egizio. Se sia stata una totale distruzione, compresa la morte del faraone, non è dichiarato in Esodo, che asserisce soltanto la distruzione di quelli che erano penetrati sul fondo asciutto del mare. Della morte del faraone, scrive tuttavia uno storico persiano del tredicesimo secolo, Al Qazvini, nel libro Le meraviglie della creazione. dicendolo travolto da un vortice lungo la costa del Sinai, non molto lungi da Aqaba. Secondo Esodo, gli Egizi videro che gli Ebrei camminavano sul fondo asciutto del mare e all’alba iniziarono a inseguirli. Ora il vento aveva soffiato durante la notte, per cui possiamo presumere che si fosse calmato quando gli Egizi si misero in moto. Ciò significa che le acque spinte verso sud in direzione del Bab el-Mandeb stavano tornando al loro livello normale. Tale ritorno costituì un evento catastrofico di per sé, il cui modello matematico sarebbe una sfida affascinante per i moderni algoritmi e computer. Le acque tornarono in forma di tsunami, probabilmente in forma di alte onde turbolente. L’arrivo delle onde dovrebbe avere portato i seguenti effetti:

A – un modesto terremoto, con particolari vibrazioni del suolo, il che potrebbe spiegare la perdita delle ruote dei carri prima dell’arrivo dell’onda, e il terrore che colpì gli Egizi lanciati all’inseguimento; si osservi che gli tsunami non sono necessariamente accompagnati da suono, su cui il testo tace

B – la sommersione completa dell’esercito egizio (salvo coloro che potevano essersi trovati in luoghi alti), travolto nel Golfo di Aqaba. Quindi un supporto archeologico di questo scenario dovrebbe basarsi sull’esistenza di oggetti nel fondale del Golfo di Aqaba, riferibili all’armata egizia: armi, pezzi di carri militari, oggetti d’oro…

Le acque tornarono indietro dopo che Mosè ebbe sollevato il suo bastone, così l’evento apparì come un miracolo del Signore, da Mosè invocato. Non fu soltanto un evento meraviglioso, ma anche un fatto terrificante. L’onda procedette per tutto il Golfo di Aqaba con successivi rimbalzi e ritorni, così che una intera sequenza di onde, benché di decrescente intensità, deve aver colpito la costa per parecchie ore se non giorni. Ciò deve aver spinto Mosè a prendere la prudente decisione di restare per vari giorni in zone alte, sino a quando le acque non si fossero calmate.

Nel prossimo capitolo consideriamo altri effetti della esplosione di Fetonte, cioè il diluvio di Deucalione, la fine della civiltà minoica, l’arrivo dei Pelasgi e dei Minoici in Italia (centro-Italia e Salento) e l’ulteriore distruzione del delta del Nilo, che causò un periodo di decadenza di quattrocento anni dell’Egitto, sotto dinastie straniere, quelle degli Hyksos. Vedremo anche brevemente eventi nel nord Europa e nell’ Asia occidentale. Trascuriamo gli effetti sullo Yemen e sull’ America settentrionale.

Abbiamo osservato che conferme archeologiche per lo scenario dato dovrebbero provenire da rinvenimenti sul fondale del Golfo di Aqaba. Scoperte in questa direzione sono state ottenute da una spedizione dell’ Istituto Karolinska di Stoccolma, v. The Exodus revealed, search for the Red Sea crossing, Discovery Media Productions (2002). Sul fondo sabbioso del mare davanti a Nuweiba archeologi subacquei hanno trovato un gran numero di strutture coralline, in una zona in cui le rocce sono assenti e dove quindi non dovrebbe crescere il corallo. I coralli per crescere necessitano di un “seme” costituito di solito da una roccia ma anche da un oggetto metallico o di legno. Una volta che il cristallo sia cresciuto, l’oggetto metallico può decadere a causa della ruggine e sparire, lasciando intatta la struttura corallina che è cresciuta su di esso. Non solo si sono trovati coralli la cui presenza era inattesa, ma alcuni di questi sembrano possedere l’aspetto geometrico di ruote con raggi, della stessa forma e della stessa grandezza dei carri egizi, o di altri componenti dei carri. L’area indagata fa parte di un parco sottomarino, da cui non è stato possibile portar via alcun oggetto, quindi manca una datazione al radiocarbonio. I metal detectors hanno mostrato la presenza di metallo all’interno dei coralli. Altre indagini potrebbero quindi dare le prove di una violenta distruzione dei carri dell’esercito egizio. Inoltre su lisce pareti rocciose negli wadi vicino a Nuweiba si sono trovati graffiti di navigli trasportanti asini o cavalli e cassoni: forse le navi che trasportarono gli egizi…

La monografia su Atlantide ed Esodo è apparsa anche in spagnolo, pubblicata da Kiskeya, Miami, nel 2014, se ne da il frontespizio.

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Monografia 2: Un matematico fra i misteri dell’universo e della storia, Aracne, 2011

Questo libro contiene buna ottantina di sezioni dedicate a vari temi nella storia e nell’universo, precedentemente apparsi come articoli in forma poco diversa nella rivista Liberal. Il libro ha tre sezioni, ovvero I misteri della Terra e del Sistema Solare, La storia e i suoi misteri, Una miscellanea di misteri. Dalla terza sezione prendiamo alcuni capitoli, ovvero Mozart, una morte violenta, Gabriele Mandel.

Mozart, una morte violenta.

Nella storia si presentano e discutono fatti. Questi possono essere realmente avvenuti o essere non veri, perché relativi a eventi che non è interesse divulgare, o per errori di comunicazione o per altri motivi. Uno degli aspetti affascinanti della ricerca storica è scoprire la verità, a volte banale ma a volte sorprendente, che si cela dietro la versione ufficiale. Chi scrive è un matematico che da un quarto di secolo dedica molto del proprio impegno intellettuale a problemi di natura storica, relativi non a tempi recenti, ma all’antichità biblica e dei tempi più remoti. La natura di tali studi fa scoprire come un approccio a questioni storiche, proveniente da fuori delle discipline tradizionali, possa portare a soluzioni dei problemi compatibili con i dati (non dirò certe, la certezza non essendo in generale una virtù della storia) che difficilmente verrebbero alla mente di uno storico professionale che abbia avuto una full immersion nei libri e nelle centinaia di pubblicazioni di colleghi viventi o delle generazioni precedenti, e che rischierebbe il posto affermando tesi in contraddizione con la verità dominante. Quanto affermato vale per le ricerche compiute dal collega matematico prof Giorgio Taboga. Le sue conclusioni hanno suscitato, con la prima edizione del libro sulla morte violenta di Mozart, e susciteranno anche con la seconda edizione cui qui mi riferisco, forti reazioni da parte dell’establishment culturale ed anche economico. Trattare di eventi recenti – dove per recenti può intendersi anche qualche secolo – è più difficile a volte e più rischioso che trattare di eventi lontani migliaia di anni. Quindi onore a Taboga per il coraggio nell’affrontare un tema tanto controverso.

L’incontro del sottoscritto con Taboga è avvenuto in modo del tutto casuale. Trovandomi in Germania per ricerche in matematica e leggendo ogni giorno il Corriere della Sera nella ben dotata biblioteca dell’università di Würzburg, notai un trafiletto che si riferiva al suo libro sulla morte di Mozart. Rientrato in Italia cercai il libro, che trovai convincente, sebbene troppo polemico nei confronti degli storici tradizionali. Contattai telefonicamente l’autore per complimentarmi e suggerirgli di cercare qualche discendente dei due medici che furono al capezzale di Mozart, ricordando come uno storico di Domenico Scarlatti, avuta l’idea di cercarne il nome sull’elenco telefonico di Madrid, avesse rintracciato, dopo circa 250 anni, dei discendenti ancora in possesso di documenti e di sonate inedite. Incontrai Taboga poi in varie occasioni. Egli venne all’Università di Bergamo nel 2000, anno mondiale della matematica, per fare una presentazione di Luchesi, – amico dei fratelli Riccati, gesuiti ai vertici della matematica italiana del Settecento – profondamente coinvolto nella creazione della Wiener Klassik e nelle vicende di Mozart, Haydn e Beethoven.

Il libro qui considerato analizza le cause della morte di Mozart, escludendo, con considerazioni varie, che sia morto per malattia o per avvelenamento. Nota anche la falsità dell’affermazione che il suo funerale, che doveva essere solenne data la fama e la recente nomina a Kapellmeister di Mozart, non si fece a causa di un’intensa nevicata: infatti dai giornali si legge che il tempo era buono, anche prima e dopo il giorno del funerale. Sostiene che il corpo non fu posto in una fossa comune poiché il becchino lo seppellì a parte per rivendere dopo un anno il cranio a un patologo interessato. Con varie argomentazioni mostra che morì a causa della bastonatura infertagli da tale Hofdemel, di cui Mozart aveva sedotta la moglie. Hofdemel era stato autorizzato a dare una lezione a Mozart dalla loggia massonica cui entrambi appartenevano. La morte violenta fu celata dando una cospicua pensione, cui non avevano diritto, alla moglie e sorella di Mozart e alla moglie di Hofdemel; questa fu sfregiata dal marito cui era stato imposto di suicidarsi.

Rispetto al precedente libro, Taboga porta del nuovo materiale. Particolare rilevanza assume il presunto cranio di Mozart, tenuto nascosto per quasi un secolo e tornato alla luce fortunosamente. Tale cranio ha caratteristiche compatibili con quelle di Mozart, che da una parte era nato con un piccolo difetto alla calotta cranica, dall’altra subiva ancora al momento della morte gli effetti di una caduta da cavallo, avvenuta quando uscì ubriaco a mezzanotte da un bordello. Incredibilmente non decisivo è stato invece il test del DNA effettuato sul cranio, perchè la tomba di famiglia ospita anche defunti non imparentati con Mozart. Ma una risposta potrà venire da una ciocca di capelli del musicista, che il Mozarteum non ha ancora messo a disposizione. Importante inoltre sarà recuperare il registro e parte dei diari dei membri della loggia massonica cui appartenevano sia Mozart che il bastonatore Hofdemel, il quale ben difficilmente poteva agire senza essere autorizzato. Tali documenti si trovano ora, a quanto ci risulta, a Budapest.

                Un libro quello di Taboga, affascinante lavoro di detective, di logica nel trattare i problemi e per gli scenari ancora aperti che suggerisce. Un libro che rivaluta immensamente il ruolo dei grandi musicisti italiani del secondo Settecento, Luchesi e Sammartini in particolare, nella nascita della cosiddetta Wiener Klassik e nella formazione di Beethoven, il gigante della musica che per una decina di anni fu allievo di Luchesi.

Gabriele Mandel

Il primo luglio di questo 2010 mentre alla stazione di Roma mi avviavo a prendere il treno notturno per Milano – un servizio ora poco usato – ricevevo da mia moglie un sms: Mandel è morto! Una notizia purtroppo attesa, dopo un’operazione a un tumore polmonare (avvenuta il giorno prima di una domenica in cui lo attendevo a pranzo con il soprano Gigliola Frazzoni) e il successivo fallimento della chemioterapia. E avevo poco prima telefonato per notizie; aveva risposto non la moglie, ma una voce mai sentita prima, quella della figlia Paola che lavora in ambito teatrale: papà dorme… Gabriele Mandel aveva già passato il confine che ci separa dall’incontro con Dio, e non voleva che alcuno perdesse tempo per il suo funerale, limitato ai familiari. E così, con lui uomo di 86 anni, scompariva una delle persone più straordinarie nel campo culturale, artistico e spirituale che abbia mai incontrato.

Gabriele Mandel era figlio della poetessa ebrea Rimini, una veneziana ma non del ghetto; era quindi ebreo per la legge ebraica, dove l’ebraicità dipende dalla madre. Una famiglia quella della madre che perse una dozzina di membri nei campi di concentramento. Gabriele, ventenne di vastissima cultura e che aveva molto viaggiato, agì nella resistenza contro i tedeschi presenti nel nord Italia. Si trovava in prigione a San Vittore nell’aprile del 1945 in cui io nacqui e tedeschi e alleati fascisti controllavano Milano. Doveva essere fucilato, la cosa fu rimandata per un’epidemia di tifo, e poi per solo un paio di ore si salvò grazie all’ingresso a Milano dei partigiani. In quei giorni di bombardamenti, non solo sulle grandi città (a Milano fu distrutto circa il 10% delle case, ma le fabbriche militari non furono mai colpite…), ma anche sulle piccole, a Gorizia moriva sotto le bombe una giovane del Kashmir a lui legata sentimentalmente…. come mi disse commentando una mia email sul Rajatarangini, libro con gli annali di quella terra, e scrivendo di non volere ricordare quelle malinconie…

Le radici di Mandel sono nell’Afghanistan sud occidentale, la zona ampiamente desertica attraversata dal fiume Helmand, da cui il nome Mandel. Qui si trovava il palazzo dei suoi avi, discendenti dal re della Battriana che organizzò la resistenza ad Alessandro Magno, incapace di conquistare la Battriana in tre anni di guerra. Gabriele aveva la lista genealogica dei suoi avi a partire da quel re, lista ora da rintracciare nella vastità di libri e documenti che ha lasciato. Nella seconda metà dell’Ottocento un suo bisnonno fu inviato a studiare all’ università di Vienna. Allora i paesi dell’Asia, riconosciuta la superiorità tecnologica e militare dell’Occidente, decisero di formare anch’essi giovani con conoscenze tecnologiche di tipo occidentale. Il bisnonno si fermò in Austria e comperò vaste estensioni di terreni in Ungheria, presso l’ansa del Danubio. Alcuni anni fa Gabriele, potendo recuperare quei terreni che erano stati sequestrati dal governo comunista, rinunciò in cambio del materiale per costruire sull’ansa del Danubio una statua in ferro dedicata alla pace, la più grande mai fatta.

Il nonno divenne ambasciatore austriaco a Roma dove sposò Vittoria Sugana, una delle figlie naturali di Vittorio Emanuele II, detto Padre degli Italiani, forse con riferimento al vasto numero di figli naturali. Il padre fu fisico e amico di Einstein, di cui Gabriele dipinse il ritratto che orna il volume prodotto per il centenario della nascita del fisico associato alla relatività. Gli avi di via paterna di Gabriele erano musulmani e sufi, aderenti quindi a una di quelle correnti islamiche le cui radici affondano in un passato remoto, e proclamanti, come disse Gabriele, che scopo della vita è studiare e viaggiare. Gabriele quindi, ebreo per gli ebrei ma musulmano per i musulmani, portò avanti naturalmente il ruolo di guida sufi che era stato dei suoi avi.

La straordinaria cultura di Gabriele Mandel si manifestò sin da bambino quando, avendogli il padre detto che le lingue più difficili erano il giapponese e l’egizio geroglifico, si dedicò a studiarle, acquisendole da adolescente, e prendendo un diploma in giapponese a Parigi. Poi ne studiò altre, fra cui cinese, turco, persiano e soprattutto l’arabo classico, che iniziò a studiare a 12 anni con l’ insegnante del padre e dove divenne un’autorità. Ha prodotto, pochi anni fa, una nuova versione del Corano che è stata approvata dalla prima università del mondo islamico, quella di Al Azhar al Cairo, notevole in particolare per il commento (e avrebbe introdotto la mia interpretazione della frase Signore degli occidenti e degli orienti, se l’avesse saputa in tempo…). Aveva promesso la traduzione in arabo di due miei articoli dedicati a Toscanini e a Magda Olivero, ora disponibili in 25 lingue con riferimento a quel 25 marzo in cui entrambi nacquero, nel 1867 e nel 1910, ma il suo tempo è finito prima di realizzare questa promessa. La traduzione è stata fatta in Libano, nella Università Holy Spirit di Junieh, dove alcuni matematici lavorano sulle mie teorie. Accanto al Corano dobbiamo ricordare la traduzione del Mathnawi del poeta persiano Rumi, fondatore dell’ ordine di sufi cui lui apparteneva, a 800 anni dalla sua nascita. Lavoro che lui presentò per conto del governo italiano in numerosi paesi islamici.

Mandel si laureò in psicologia, lettere, lingue e, a 53 anni, medicina. Fu professore universitario e psicanalista, incaricato a volte dalla Curia milanese di trattare casi molto difficili. Fondò la sezione italiana di un ordine sufi. E’ autore di oltre duecento libri, scritti in modo chiaro e informativo, e gli sono grato per avermi mandato copia di quello su Salomone, introvabile. Fra i suoi libri molti hanno uno straordinario corredo iconografico, come quelli sugli alfabeti arabo ed ebraico; ha anche prodotto due grossi volumi sulla storia dei chiodi e delle chiavi!

E’ stato calligrafo, ceramista, scultore in ferro battuto. Ha avuto il diploma in conservatorio in violino. A lui pensavo come al centesimo nome segreto di un mio libro con cento interviste di artisti che hanno amato Puccini. Mandel avrebbe saputo confrontare il mondo della vocalità occidentale con quello orientale. E’ stato sostituito da un personaggio di non meno straordinario interesse, un soprano ora dimenticato ma ammiratissimo da Caruso e da Ricordi.

Mandel era oratore di incredibile potenza. Fece una conferenza su Dio in un convegno a San Marino, e credo di non avere mai sentito nessuno parlare come lui su Dio, meta cui l’uomo, come lui disse, può tendere da molte strade, ma con lo stesso obiettivo.

Gabriele, che conoscevi anche i miei genitori e lo zio Umberto Risso, conoscerò ancora un’altra persona come te, per la dedizione ai valori più alti, della cultura, dell’arte, dell’aiuto al prossimo?

Sotto una foto di Mandel con il soprano Magda Olivero, in visita da Spedicato.

Mandel e soprano Magda Olivero

Monografia 3, Pseudo Aethicus cosmographia, Aracne, 2013

Questo libro contiene la prima traduzione in assoluto, dal latino in italiano e inglese, della Cosmographia di Pseudo Aethicus, un autore ritenuto del quinto secolo dopo Cristo e virtualmente sconosciuto; in stampa è anche la traduzione in spagnolo, edita da Kiskeya, Miami. Alla traduzione si aggiunge un commenta che evidenzia gli aspetti importanti in questa opera geografica, dedicata particolarmente ai fiumi e con informazioni sull’ Asia centro-orientale (Tibet, Cina, Siberia). Aethicus inoltre conferma in un suo passo come il nome originario del fiume Indo fosse Eufrate, fatto già derivato da Spedicato in studi su Gilgamesh e sull’Eden.

Nel seguito diamo alcune sezioni, fra cui quella relativa all’ Eufrate come Indo.

9 – Fluvius Euphrates nascitur in campis Indiæ, et discurrens per eandem provinciam, currit millia DCXII. & infundit se mari Oceano orientali sub insula Theron.

Il fiume Eufrate nasce nei territori indiani, e nell’ attraversarli percorre 612 miglia. Si getta nell’Oceano orientale sotto l’ isola di Theron.

The River Euphrates originates in Indian territories and flows through them for 612 miles. It enters the Eastern Ocean near the Island of Theron.

Questa affermazione dello pseudo Aethicus che pone l’ Eufrate in India è di estrema importanza, anche in relazione al secondo Eufrate di cui più avanti discute e che trovasi nella Mesopotamia. L’ apparente contraddizione può risolversi o in una, ma improbabile, casuale somiglianza del nome, o nel fatto che le popolazioni sumere della regione del basso Eufrate mesopotamico provenissero dal territorio indiano e dessero al fiume incontrato in Mesopotamia il nome di quello da loro noto in India ed assai importante per le vicende relative alla “creazione” di sette coppie umane, fra cui l’ Adamo ed Eva biblici. Il fiume nel testo consonantico del Genesi è detto PRT; si noti qui la somiglianza con il nome antico dell’ India, ovvero Bharat.

L’ India in tempi antichi almeno per un certo periodo forse comprendeva anche la regione, a nord dell’ Himalaya, del sacro monte Meru o Kailash, trono di Shiva che vi siede sulla cima abbracciato in un amplesso con la moglie Parvati, quando non con altre dee. La parola “Sumer” può essere vista come “ buon Meru”, “su” significando “buono” in sanscrito. E’ quindi possibile una provenienza dei Sumeri dalla regione a nord dell’ Himalaya, raggiungendo loro la pianura indiana e poi mesopotamica via le valli di uno dei due rami dell’ Indo, il Sutlej o il Senge (Leone in tibetano, ramo principale dell’ Indo) che nascono proprio dal Kailash.

Si noti inoltre che i sumeri chiamavano se stessi “teste nere”, che è ancora il nome che i tibetani danno a sè stessi (bo pas, vedasi i libri di Alexandra David Néel). In un lavoro sulla geografia dell’ Eden, Spedicato [9], abbiamo arguito, indipendentemente da quanto qui detto, allora a noi sconosciuto, che il fiume detto PRT, nel testo con sole consonanti del Genesi, dovesse essere non l’Eufrate mesopotamico ma l’ Indo, e precisamente quello dei cinque rami principali che scorre nella valle di Hunza, Pakistan, con il nome ora di Hunza.

Tale valle, secondo argomenti da noi addotti, corrisponde al Giardino dell’ Eden, GAN ebraico, KHARSAG sumero. Nel Genesi, testo originale consonantico, il fiume è indicato come PRT, vocalizzabile come PIROT = FRUTTA, oppure PAROT = VACCHE, oppure PERATH = FERTILITA’, tutti nomi ben atti a descrivere tale Giardino. E qui notiamo ancora che il nome originario dell’India, Bharat, è assimilabile a livello di consonanti a PRT = BHRT… Infine va ricordato un passo del perduto libro dell’ ammiraglio della flotta di Alessandro Magno, Nearco, dove si afferma che la distanza fra l’ Eufrate e il Tigri è di mille miglia, circa 1500 km. Questa affermazione ha senso se l’ Eufrate è l’ Indo, ma non ha senso se l’ Eufrate è il fiume mesopotamico, che sfocia nel Golfo Persico o molto vicino al Tigri o addirittura a volte unito0 a questo….

Come l’ affermazione del nostro autore vada contro la normale identificazione del fiume Eufrate, appare ad esempio da questa nota di Del Rio nel volume da noi utilizzato: EUPHRATEM IN INDIA NASCI, & PER EAM PROVINCIAM CURRERE SCRIBIT, QUOD NON VIDEO QUOMODO DEFENDI POSSIT… Ebbene, dopo quasi 400 anni la spiegazione è giunta. Grazie, pseudo Aethicus, per aver trasmesso una memoria raccolta da coloro che Cesare ed Augusto inviarono ai confini dell’ impero romano.

Si noti che Del Rio cita Plinio il Vecchio, che anche lui attribuisce all’ Eufrate nella parte iniziale nomi diversi, come Pixiratem e poi Omirram, prendendo quello di Eufrate dopo il passaggio del Tauro, ovvero quando entra nella pianura mesopotamica. Nota poi che il riferimento al territorio partico non è ovviamente alla regione da cui i Parti originarono, sita presso il Caspio, ma al loro impero, esteso su buona parte di quello dei grandi re Achemenidi…

 The statement of pseudo Aethicus that locates Euphrates in India is extremely important, especially since he later presents another Euphrates in Mesopotamia. There are at least two ways to solve such an apparent contradiction. The first one, which we think unlikely, is a casual similarity between names. The second one is that the Sumerian people, living near the low part of the Mesopotamian Euphrates, originated from some Indian area and named the river they encountered in Mesopotamia with the same name as the original great river in India. Such a river appears in Sumerian texts related to the creation of seven married couples, including the biblical Adam and Eve. The river in the consonantic text of Genesis is given as PRT, and we notice the similarity with the original name of India, i.e. Bharat.

It is likely that ancient India, for some time, also included the region north of the Himalayas, where we find the sacred mountain Meru or mount Kailash, considered to be the throne of Shiva who sits on its top embracing in love his wife Parvati, if not another goddesses. The word Sumer may be seen as good Meru, since su means good in Sanskrit. We may hypothesize an origin of the Sumerians from north of the Himalayas, present day Tibet. They probably reached the Indian planes via one of the two valleys of the Sutlej or Indus Rivers, named Senge in present day Tibetan, meaning lion. Both rivers originate from Kailash.

Notice that the Sumerians called themselves black heads, intriguingly the same name that Tibetans give to themselves, i.e bo pas. (See the books of Alexandra David Néel). In an essay on the geography of Eden, see Spedicato [9]), we have argued, independently of the statements of pseudo Aethicus which were then unknown to us, that the river named PRT in Genesis is not the Mesopotamian Euphrates, but the Indus, and more importantly, that one of its five main branches that flows in the Hunza valley, Pakistan, has now the name of Hunza River.

This valley, following our arguments, can be identified with the Garden of Eden: GAN in Hebrew, KHARSAG in Sumerian. In the original consonantic text of Genesis, the river is called PRT. Such a name can be vocalized in different ways, including PIROT = fruit, PAROT = cows, or PERATH = fertility, names well apt to describe the Garden of Eden. We should also note that the ancient name of India, Bharat, is essentially the equivalent in consonantal terms to PRT = BHRT. Finally we may recall a passage from a lost book of Nearchos, the admiral of Alexander the Greats fleet. There he states that the distance between the Euphrates and the Tigris amounts to one thousand miles, about 1500 km. Such a distance is acceptable if the Euphrates is the Indus, but not if it is a Mesopotamia river ending in the Persian Gulf quite close to the mouth of the Tigris, not to say that the two rivers often joined as one.

That the statement of pseudo Aethicus goes against the usual identification of the River Euphrates, is also seen in the following note of Del Rio in the volume that we have used: EUPHRATEM IN INDIA NASCI, & PER EAM PROVINCIAM CURRERE SCRIBIT, QUOD NON VIDEO QUOMODO DEFENDI POSSIT… Well, after about 400 years since the statement was made, we now have an explanation, and we are indebted to pseudo Aethicus for having kept the information collected by those whom Caesar and Augustus sent to the borders of the Roman empire.

Notice that Del Rio quotes Pliny the Elder, since he too gives different names to the Euphrates in the initial part of its course, for instance Pixiratem and Omirram. The name Euphrates appears only after the river has crossed the Taurus range, entering the Mesopotamia plane. Notice also that the reference to the Parthian territory should not mean just the original region of the Parthians, located on the border of Caspian sea, but their actual empire, which covered a large part of the empire of the great Achaemenides kings

Sotto frontespizio del libro utilizzato per la traduzione, del 1645.

Pomponius Mela

Monografia 4: Abbiamo amato Puccini, 108 incontri tra un matematico e il mondo della lirica, Aracne, 2013.

Questo libro presenta 108 incontri, tramite intervista diretta o ricordo di parenti o amici in caso di artista non più in vita, con artisti viventi o non viventi dal mondo della lirica, soprani, mezzosoprani, tenori, baritoni, bassi, direttori di orchestra, registi ed altri. Incontri avvenuti fra il 2008 e il 2012, libro che a breve sarà seguito da un secondo sempre di 108 incontri, probabile record nella letteratura operistica. Il libro è stato scritto iniziando nell’anno di anniversario di Puccini, nel seguito parte dell’ introduzione, seguita dal capitolo sul tenore Parmeggiani e sul soprano Franca Fabbri. Fra le presentazioni effettuate, diamo la locandina di quella avvenuta al Conservatorio Santa Cecilia di Roma.

 abbiamo amato puccini

1 . Introduzione

Chi scrive è professore ordinario presso l’ Università di Bergamo nella disciplina matematica detta Ricerca Operativa, il cui scopo è ottimizzare le prestazioni di certi sistemi. Oltre ad avere ottenuto il primo dottorato in disciplina matematica in Cina dato ad un non cinese, è anche laureato in fisica. Si occupa inoltre, con approccio interdisciplinare, di temi relativi alle discontinuità e ad enigmi nella storia antica a memoria di uomo (fra cui Atlantide, il diluvio di Noè, il diluvio di Deucalione, la prima delle quattro catastrofi dei Maya, la geografia dell’ Eden, il viaggio di Gilgamesh, chi erano i Magi…) e ai fenomeni astronomici associati (fra cui l’inversione dell’ asse di rotazione terrestre e nuova teoria dell’ origine della luna).

La musica rientra nei suoi interessi da quando ragazzino iniziò lo studio per nove anni del pianoforte con l’ insegnante russa Irina Giulietta Kirpischeff Zambelli e poi per decenni con l’ascolto della musica classica (molto classicismo e romanticismo, meno barocco e moderni). A fine anni novanta la lettura dei libri del matematico Giorgio Taboga sul compositore Andrea Luchesi associato alla Wiener Klassik, nonché sulla morte di Mozart, avvenuta, sostiene Taboga, per le bastonate di un marito la cui moglie Mozart aveva sedotto, hanno portato ad un interesse per le questioni musicologiche. L’interesse per la musica lirica, prima marginale, è divenuto importante quando, verso il 2003, una zia novantenne, Amelia Risso, ricordò che il tenore Aureliano Pertile era un amico di famiglia. Secondo la zia, Pertile veniva a cantare e suonare il piano nel loro albergo, il Croce Bianca di via Lazzaretto, a Milano, vicino alla stazione ferroviaria, allora situata davanti ai Giardini Pubblici. Probabile motivo del legame con Pertile il fatto che mio nonno materno, Emilio Risso, parlava molte lingue (si dice 8 europee e 17 asiatiche), apprese nei molti anni che a partire da ragazzo decenne passò come mozzo e marinaio su navi sulla rotta Italia-Asia. E’ quindi possibile che fosse chiamato alla Scala come interprete e che qui lui, appassionatissimo di opera, conoscesse Pertile, e forse Toscanini. Questa rivelazione di zia Amelia attivò in me il desiderio di incontrare stelle della lirica, soprattutto quelle grandi nel passato, nonché di dedicare più tempo alla conoscenza delle opere via CD e DVD.

La prima stella che incontrai, grazie al professor Alberto Crespi, insigne giurista e docente di storia della musica all’ Università Cattolica, è stata Magda Olivero, che ci ricevette nel suo elegante appartamento in corso Magenta. Primo incontro questo di tanti successivi con la Signora della lirica, come me la definì Giulietta Simionato. Poi, man mano che riuscivo a scoprirne l’ indirizzo, altri sono seguiti, con Stella, Maliponte, Frazzoni, Cerquetti, Bergonzi, Prandelli, Di Stefano….. Avvicinandosi poi il 2008 con i centociquant’ anni dalla nascita di Puccini, e trovando impossibile organizzarne un ricordo da parte della mia Università (non ci sono soldi…), decisi che a Puccini avrei dedicato parte del mio tempo, e dei miei soldi, con un libro di interviste a stelle della lirica che lo avevano amato. Inizialmente pensai di utilizzare una dozzina di interviste selezionate (da Prandelli e dalla Olivero) dal libro di Lanfranco Rasponi The last prima donnas, oltre ad alcune che avrei fatto io. Feci tradurre il centinaio di pagine selezionate da una giovane indologa suggeritami dalla musicologa Valeria Pedemonte, che non poté fare lei il lavoro causa i sintomi iniziali di un Parkinson. Usai un piccolo finanziamento generosamente arrivato dal compagno di liceo Agostino Gavazzi, presidente del Banco di Desio, unico atto di mecenatismo mai avuto in vita. Poi, riscontrata l’impossibilità di identificare a chi spettassero i diritti del libro di Rasponi, morto da tempo e con il libro passato fra varie case editrici, decisi di utilizzare solo mie interviste, sia a cantanti viventi, che non in vita, ma ricordati da parenti o altri. E inoltre aggiungere direttori non viventi e persone relazionate con la lirica, anche se non appartenenti alle categorie precedenti. All’inizio pensavo ad una quarantina di interviste, che poi divennero sessanta, settantadue, novanta ed infine centootto.

Il lavoro è iniziato a metà 2008 ed ha richiesto tre anni e mezzo, alla media rispettabile di una trentina di interviste all’ anno. All’ inizio intervistavo come persona quasi ignorante del mondo della lirica, poi mi è capitato spesso di informare gli intervistati su fatti o persone che non conoscevano o di cui avevano perduto i contatti. In generale ogni intervista è stata controllata almeno una volta dall’intervistato, essendo facile commettere errori con appunti scritti a mano (forse ho sbagliato a non usare il registratore). E’ tuttavia possibile che siano restati errori o refusi, dei quali mi scuso, pronto ad una rettifica in successive possibili edizioni. Devo dire che con alcuni degli intervistati sono nati dei rapporti amichevoli e i contatti sono continuati anche successivamente.

Per questo libro ho avuto l’ aiuto di varie persone che qui ringrazio: in primis la contessa Emanuela Castelbarco, nipote di Toscanini, che mi ha permesso di contattare Licia Albanese, decano delle stelle della lirica; i musicologi Giorgio Gualerzi, enciclopedia vivente della lirica, Renzo Allegri, Carla Casanova, Giancarlo Landini, Elisabetta Romagnolo, Vincenzo Ramon Bisogni, Valeria Pedemonte; i cantanti Angelo Loforese, Bonaldo Giaiotti, Ivo Vinco, Virginia Zeani, Adriana Maliponte, Franca Fabbri, Maria Laura Martorana, Gigliola Frazzoni, Egle Valbonesi, Mosè Franco, Isabella Mangiarratti, Anna Maria Cappa; Giuseppina Signorelli, figlia di Mafalda Favero, e Paolo Donati, figlio di Maria Caniglia; i professori Luciano Ruggi, Giancarlo Marchesi e Gianfranco Gambarelli; i registi Mario Lanfranchi e Antonello Diaz Madau. Probabilmente dimentico altri…

Chi scrive non è musicologo, quindi gli incontri presentati sono certo carenti dal punto di vista biografico e da quello dell’ analisi della vocalità dei cantanti o dello stile dei direttori. Il loro scopo è di comunicare quanto a distanza di anni la memoria offre come primo ricordo della persona considerata. Si può quindi notare che nei cantanti dominano i ricordi della scoperta della loro musicalità e della loro emergenza nel mondo della lirica, non facile e per le sue caratteristiche specifiche e per l’esistenza di giochi di potere o di richieste non musicali che spesso gravano sui cantanti. Su di questo si potrebbero scrivere libri, notando che le cose non cambiano se si passa al campo scientifico, anche matematico, come chi scrive ha verificato e su cui potrebbe scrivere un libro. Tuttavia abbiamo lasciato da parte questi aspetti, soffermandoci su quello che la musica, e la lirica in particolare, esprimono, come arte forse la più sublime, realizzata dagli intervistati a livelli artistici alti o altissimi.

Una ciliegia tira l’ altra e questo è risultato non solo in una maggior presenza di sempre fascinose cantanti donne, anche di non verde età, rispetto agli uomini, ma nel progetto di un secondo libro dal titolo tentativo Un matematico fra 54 soprani e mezzosoprani. Già alcune interviste per questo secondo libro sono state fatte, e comunque saranno presenti alcuni uomini, cantanti, musicologi, registi…. L’uomo propone e Dio dispone.

Perché 108 e 54? A questa domanda risponderà in dettaglio il previsto mio prossimo libro Dizionario dei numeri rituali, dove vari numeri che appaiono in riti sacri o civili o in usanze popolari sono spiegati con il ricordo di speciali avvenimenti nella storia umana, databili anche a varie migliaia di anni fa. Fra questi numeri i principali sono forse 3, 7, 12, 13, 20, 30, 54, 60, 72, 108…. Qui solo accenniamo senza entrare nel merito che 54 e 108 si riferiscono alla ipotizzata periodicità di passaggi ravvicinati fra Marte e Terra, cessati verso il 700 AC, epoca di cambiamenti dei calendari. Fra i numeri rituali, questi due numeri sono superati forse solo dal 7, ed appaiono non solo in riti ed usi molto antichi, ma anche moderni: la Madonnina del Duomo di Milano sta a 108 metri di altezza, il Vaticano ha un’area di 108 acri (unità di misura anglosassone equivalente al sumero iku). Fra gli utilizzi antichi notiamo che per entrare nella Triade (potente società segreta cinese, la più antica al mondo, risale al 2000 AC) bisogna pagare con 108 monete, che la massima pena presso la Triade, prima di quella di morte, è di 108 frustate…. che in Tibet un lama per passare ad un grado superiore deve fare il giro di 108 laghi e cimiteri… che 108 giri del sacro monte Kailash (il monte Meru) garantiscono per gli indù accesso diretto al Nirvana…

Questo libro comincia con un gruppo di 8 artisti di grande longevità, fra i quali ancora viventi sono Licia Albanese, decano dei cantanti, Magda Olivero e Angelo Loforese. Seguono poi 100 altri artisti, ovvero 99 con il loro nome, come 99 sono i nomi di Dio noti, sui quali il grande sufi Gabriele Mandel ha scritto un libro bellissimo, più un centesimo senza nome, come il centesimo nome di Dio che è segreto per i più, ma noto ai sapienti. Lasciamo al lettore di indovinare chi sia il soprano associato al centesimo nome. I 100 artisti sono divisi in gruppi, qui elencati nell’ ordine in cui appaiono: direttori (11, tutti non viventi), artisti con ruolo collaterale al mondo operistico (12, viventi e non), 18 cantanti uomini non viventi,

14 cantanti donne non viventi, 14 cantanti uomini viventi, 30 cantanti donne viventi, e infine il centesimo nome segreto. La definizione di vivente è data con riferimento al momento del contatto.

Sull’ origine dei 99 nomi più il centesimo segreto sarebbe anche qui possibile ipotizzare una motivazione astronomica, sempre associata a Marte, ovvero che ci siano stati 100 passaggi ravvicinati ogni 54 anni, per un totale quindi di 5400 anni. Il centesimo passaggio fu speciale, per una speciale interazione di Marte con Terra e Venere che circolarizzò l’ orbita di Marte e terminò questi passaggi ogni 54 anni di natura alquanto terrificante per l’ umanità. Su questo tema si vedano gli studi dell’astronomo Donald Patten, del fisico John Ackerman e del fisico e matematico Laurence Dixon, prosecutori dei lavori di Immanuel Velikovsky, amico di Einstein, studioso di immensa cultura con idee rivoluzionarie sulla cronologia antica e sulla evoluzione recente del sistema solare, presentate negli anni Cinquanta e Sessanta (quelli d’oro della lirica del dopoguerra).

Nei tre anni e mezzo di lavoro per questo libro, alcuni degli artisti intervistati, di età avanzata, sono passati all’ altra vita. Ricordo con malinconia Anna Di Stasio, Sena Jurinac, Maria Luisa Gavioli, Giacinto Prandelli, Giulietta Simionato, Carmelina Gandolfo, Giuseppe Di Stefano e Gian Giacomo Guelfi (la cui intervista apparirà in un prossimo libro). Tutte stelle dei gloriosi anni Cinquanta, grazie per l’onore concessomi di avervi incontrati.

3 . Cenni sulla biografia di Puccini>

Diamo qui cenni biografici su Puccini, autore la cui letteratura è immensa, comprensiva anche di opere semiromanzate. Fra queste I demoni di Puccini, di Helmut Krausser, Barbera editore, 2008, dove l’ autore afferma di essere stato il primo a individuare l’ identità di Corinna, una giovane amante restata sempre misteriosa. In questo volume gli aspetti musicali sono trattati marginalmente, mentre l’ attenzione è accentuata sulle avventure di Puccini e sulle sue difficoltà con Elvira, che sarà sua moglie dopo anni di concubinato. Cominciamo con una cronologia di base.

1858 Nasce il 22 dicembre a Lucca, ultimo discendente musicista di una dinastia di compositori         locali risalente al secolo XVIII°

1861 Il 17 marzo Vittorio Emanuele II è proclamato re dell’ Italia unificata

1867 Il 25 marzo nasce a Parma Arturo Toscanini, che dirigerà alcune prime delle opere di Puccini e interagirà con lui musicalmente, scontrandosi tuttavia sulle idee politiche

1875 Compie studi musicali a Lucca; qui compone il primo lavoro a noi giunto, la melodia A te. In quell’ anno Bizet compone la Carmen.

1880 In autunno va a Milano per studiare al conservatorio, nelle classi di Ponchielli e Giacosa

1884 A Milano compone le Villi. Muore la madre,

1889 A La Scala insuccesso dell’ opera Edgar.

1891 Scopre Torre del Lago, sul lago di Montecuccoli a pochi km da Viareggio. Vi abiterà sino al 1923, quando si trasferisce a Viareggio causa rumore e inquinamento prodotto da una fabbrica costruita vicino alla sua casa. A Torre del Lago si dedica alla caccia e alla pesca, trova amici affezionati e donne a lui non indifferenti al suo fascino.

1893 Trionfo di Manon Lescaut a Torino.

1896 Successo parziale della Bohème diretta da Toscanini.

1900 Reazioni contrastanti alla presentazione a Roma della Tosca.

1904 Dopo vent’anni di concubinato sposa Elvira e riconosce il figlio Antonio,

diciottenne. A febbraio insuccesso della Butterfly a Milano, nonostante la presenza del grande soprano Rosina Storchio, ma trionfo a maggio a Brescia e poi in tutti i teatri dove viene presentata. Cinquant’anni dopo risulterà essere, con la Carmen di Bizet, l’opera più rappresentata al mondo

1905 Viaggio a Buenos Ayres ed esecuzione di tutte le sue opere. Lina Cavalieri, detta la donna più bella del mondo, si aggiunge alla lista delle sue amanti.

1907 Primo viaggio a New York con esecuzione di tutte le sue opere e nascita del progetto della Fanciulla del West. Breve incisione della voce sua e di Elvira.

1910 Suicidio per ingestione di permanganato di Doria Manfredi, domestica a Torre del Lago, accusata falsamente da Elvira ed altri di essere amante di Giacomo (il processo si chiuderà con un sostanzioso risarcimento alla famiglia). Ritorno a New York e successo della Fanciulla del West diretta da Toscanini, dove cantano Caruso e la Melis.

1914 Inizio della prima guerra mondiale, che vede Puccini su posizioni pacifiste.

1916 Termina il Tabarro

1917 Termina Suor Angelica

1918 Termina Gianni Schicchi. Ultimo viaggio a New York e presentazione del Trittico per i suoi   sessanta anni.

1920 Thomas Edison gli dedica un fonografo. Causa le agitazioni sociali in Italia, Puccini pensa di espatriare.

1922 Nasce l’ idea di Turandot. Dopo la Marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III da i poteri a Mussolini, nei cui confronti Puccini prova una certa attrazione.

1923 Lascia Torre del Lago per il fastidio provocato dalla fabbrica vicino alla sua casa, trasferendosi a Viareggio. Mussolini tenta di avere da lui un appoggio preciso. Sente i primi sintomi del cancro alla gola.

1924 Ad agosto riceve Rosa Ponselle che accompagna in Vissi d’arte, dicendo se’avessi sentita prima. Cerca di terminare Turandot, ma muore senza averla completata, a Bruxelles, dopo un intervento chirurgico sul suo tumore alla gola. Funerali solenni.

1926 A La Scala il 25 aprile Toscanini esegue Turandot, arrestandosi al punto in cui l’ autore si era fermato. L’ opera è completata da Franco Alfano, che usa appunti dell’ autore.

4 . Alcuni giudizi e lettere di Puccini (solo parte dal libro)

Puccini, creando i suoi capolavori, interagì ampiamente sia con i librettisti che con i direttori (in particolare Mancinelli e Toscanini). Ascoltò i suoi cantanti sia accompagnandoli al pianoforte a casa sua, sia durante l’esecuzione di opere. Ignoro se esista una raccolta completa dei suoi giudizi su tali cantanti. Qui ne diamo un certo numero, ricavati prevalentemente dal suo epistolario, pubblicato come Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, da Ricordi nel 1958. Ho usato un’edizione che mi fu donata da Luigi Cestari, allievo del grande tenore Ettore Parmeggiani. E a Luigi Cestari, scomparso a metà del 2010 dopo anni di sofferenze fisiche per un grave enfisema, dedico questa sezione. Ricordo con quanta passione e commozione rievocava non solo i pochi anni in cui fu tenore cantando in una decina di opere (e duettando con Giulietta Simionato) ma i lunghi anni in cui operò nella claque della Scala diretta da Parmeggiani. Mi diceva che non avrebbe mai pensato che dopo tanti anni l’incontro con me gli avrebbe fatto rivivere quei magici giorni di oltre mezzo secolo prima…

Comincio con alcuni giudizi fuori dal carteggio pucciniano. Il primo riguarda Caruso. Appare in vari testi, ma potrebbe essere una “leggenda metropolitana”. Sta scritto che quando per la prima volta Caruso andò a cantare a casa di Puccini, che lo accompagnava al pianoforte, questi dopo poche battute si alzò ed esclamò: ma chi l’ha mandato, Dio?

E qui potremmo ricordare come Wagner, esprimendo un giudizio su Bellini, avrebbe affermato: Bellini non ha scritto la sua musica, l’ha scritta la mano di Dio….

Il secondo giudizio si legge nell’autobiografia di Rosa Ponselle, A singer’s life, uscita nel 1982 con la collaborazione di James Drake e un’introduzione di Pavarotti. Acquistai questo libro via Amazon per il soprano Adriana Maliponte, che ha conosciuto e frequentato la Ponselle per discussioni interpretative. La Ponselle nel 1924 fece il suo primo e unico viaggio in Italia, visitando la terra dei suoi avi (Caiazzo in particolare, in Campania; qui nel 2011 si è tenuto il primo concorso a lei dedicato e Anna Bianca Maria Dragoni ha avuto il premio speciale alla sua memoria). Fu ricevuta da Mussolini e dal Papa, e infine da Puccini, il 24 agosto. Puccini era allora assai malato e sarebbe morto a Bruxelles a novembre, dopo una fallita operazione alla gola. Puccini le chiese di cantare Vissi d’arte. Ponselle cantò e Puccini chiese di cantare quest’aria una seconda volta. Poi fermò le mani sul pianoforte e mormorò: se l’ avessi sentita prima…

Puccini a Rosina Storchio, da Milano 22 febbraio 1904

E così la mia Butterfly, l’ appassionata piccina mi vuol lasciare? Mi sembra che, andandovene, voi vi portiate via la parte migliore, la più poetica del mio lavoro, o per meglio esprimermi: penso che Butterfly senza Rosina Storchio diventi una cosa senz’anima. Che peccato! Dopo tante ansie, dopo tanto tesoro della vostra intelligenza così fine e delicata, riceverne un compenso di brutalità!…

Puccini a Rosina Storchio, da Torre del Lago, 4 maggio 1904

… Io penso tanto a voi! Vi rivedo sempre nei graziosi atteggiamenti sotto le vesti di Butterfly e riodo la dolce vocina che tanto arriva all’ anima! Forse a quest’ora sarete alle prove costì! [ a Buenos Aires] Come vorrei esservi vicino.

Puccini a Toscanini, da Torre del Lago, 23 marzo 1911

Caro Arturo, la malattia di Caruso mi fa pensare seriamente a Roma. Tu dimmi cosa penseresti di fare in caso che Caruso non potesse venire. E consigliami circa la donna. Io non so dove battere la testa: la Gagliardi canterà Aida e per conseguenza non potrà cantare Fanciulla. C’è la Burzio, ma non mi sembra abbia più gli impeti di voce di una volta, benché nella Saffo non mi sia dispiaciuta. C’è la Berlendi, ma è un po’ troppo mezzo soprano e poi non mi pare sia così fresca di voce come una volta. C’è la Poli Randaccio, e questa non la conosco: so che urlò l’Amica due anni fa…

Puccini ad Aureliano Pertile, da Milano, 29 dicembre 1922

Carissimo Sig. Pertile, ho saputo che ella era indisposto e mi preparavo a venire a sentire come stava il mio meraviglioso interprete, quando ho saputo che elle si era ristabilito. Ne ho molto piacere, perché sarebbe stato troppo spiacevole rinunciare al godimento di riudire il migliore Des Grieux che io possa desiderare.

Puccini a Toscanini, da Milano, 2 febbraio 1923

Caro Arturo, tu mi hai dato la più grande soddisfazione della mia vita. La Manon nella tua interpretazione è al di sopra di quanto io pensai a quei tempi lontani. Tu hai reso questa mia musica con una poesia, con una “souplesse” e una passionalità irraggiungibili. Proprio ho sentito ier sera tutta l’anima tua grande e l’ amore per il tuo vecchio amico e compagno nelle prime armi. Io sono felice perché tu hai sopra tutti saputo comprendere tutto il mio spirito giovane e appassionato di trent’anni fa! Grazie dal profondo del mio cuore!

Alla buona signora Carla tutta la mia riconoscente amicizia per quanto esse ha fatto per le feste di iersera.

Puccini a Carlo Clausetti, da Viareggio, 9 ottobre 1924

Caro Carlo,… domani vado a Firenze dal prof. Torrigiani per un’altra visita alla mia tormentosa gola!… Gigli mi ha risposto così ed ho comunicato alla Scala: “Terminato giro recite concerti 25 corrente, ritorno N. York; prenderò opportuni accordi con il mio manager, dandole così eventuale risposta accettazione Turandot…

Puccini a Carlo Clausetti, da Viareggio 29 ottobre 1924

Caro Carlo, il mio male è un papilloma, non grave, ma bisogna levarselo e presto…. speriamo che possa guarire, che Turandot riprenda. Per ora tutta la musica di casa mia è un silenzio doloroso.

Puccini a Riccardo Schnabl, da Bruxelles, novembre 1924

Caro Riccardo, grazie tuo interessamento. Penso a Turandot non finita! Spero che riusciranno a guarirmi, ma è molto difficile la località, la base dell’epiglottide.

Carlo Clausetti a Giuseppe Adami, telegramma da Bruxelles, 28 novembre 1924, ore

Sopraggiunta grave crisi cardiaca stop temesi catastrofe stop siamo straziati.

Segue copia di lettera a Toscanini, ottenuta dalla nipote Emanuela Castelbarco, e quindi foto di Spedicato a Torre del Lago..

 

 

lettera a Toscanini

Puccini

Sotto lettera del soprano Joan Sutherland.

Joan Sutherland

70 – FABBRI FRANCA  

Forse timida, ma quanto vera in Fiordiligi e in Violetta

Non tutti i cantanti dotati di voce anche bellissima e assai espressiva diventano famosi per il grande pubblico, e a volte sono poco noti anche ai colleghi. Questo è il caso di Hugues Cuénod, da poco morto a 109 anni al momento in cui scrivo; Cuénod era conosciuto in Italia per le sue doti stupefacenti solo in ristretti circoli . Entrano in gioco ovviamente fattori mediatici, da aggiungersi, per i cantanti degli anni Cinquanta del Novecento, al fatto che, come dice Gigliola Frazzoni, c’erano almeno quaranta soprani e quaranta tenori tutti di alto livello… Sono quindi grato al tenore Renato Cazzaniga per suggerirmi di intervistare Franca Fabbri, soprano di cui mi celebrò la bellezza della voce e la bellezza di donna, avvertendomi che era una signora un poco timida. La diffidenza al primo contatto telefonico fu rimossa velocemente, quando le dissi che Aureliano Pertile frequentava la casa dei nonni. E poco dopo avvenne l’ intervista a casa sua, a Milano in zona Città Studi, prima che partisse per un pellegrinaggio a Lourdes. Pare che la maggior parte dei cantanti abbiano una significativa religiosità. Forse cantare certe melodie, o frasi musicali, può produrre un’estasi sia uditiva, che sensuale, e spirituale. A me è successo ascoltando alcuni passi delle Toccate di Bach e delle Variazioni op 45 e 80 di Beethoven (suonate da Glenn Gould…). E fra i soprani di questo libro si trova chi voleva farsi suora (Maria Luisa Gavioli, non lo divenne per motivi di salute) e chi divenne suora laica al termine di una straordinaria carriera associata a Toscanini: Rosina Storchio, che passò i suoi ultimi anni a Milano ad occuparsi dei bambini invalidi nel Piccolo Cottolengo. E secondo voci raccolte nel corso delle mie ultime interviste il soprano canadese di origine greca Teresa Stratas sarebbe divenuta suora, dove non è certo, si parla di un convento presso Viterbo… e forse influenzata da un periodo che passò in India in un orfanotrofio di Madre Teresa. Teresa Stratas, che ammiro in vari DVD fra cui una Salomè, e che scopro essere stata compagna di studi di uno studioso di enigmi dell’ antichità che conosco da tempo, Milton Zysman, di Toronto…

Comincio con il colloquio avvenuto nel salotto dell’ appartamento milanese della Fabbri, dominato da un pianoforte Pleyel tre quarti di coda. Questo era stato il pianoforte di famiglia del direttore d’orchestra Alberto Erede e le fu regalato dalla moglie di Alberto, signora Emy Erede. Forse, penso, è il pianoforte su cui studiò il mio compagno di liceo Marco, figlio di Alberto Erede. Marco suonava meravigliosamente, mi disse un giorno Federica Zanuso, compagna di liceo anche lei, bionda, bella e vivace, figlia del grande architetto Marco Zanuso…. e il mio sospetto è confermato quando telefono a Marco.

Franca è nata a Milano, in famiglia musicale. Suo padre suonava nell’orchestra della Scala come primo clarinetto, e aveva suonato con Toscanini e De Sabata; ricorda che in casa ascoltava papà suonare il pianoforte e la fisarmonica stando seduta sul pavimento con le gambe incrociate. I genitori erano originari di Rimini. La madre faceva parte della prima famiglia riminese; i nonni non volevano che sposasse papà, un giovane e povero musicista; lui allora la rapì, nella tradizione dei personaggi di un tempo…. Papà morì presto, a 46 anni, lasciando quattro figli, fra cui una sorella sordomuta. Lei fu messa in collegio, alle Stelline, in corso Magenta a Milano, un istituto per sole ragazze orfane, risalente a San Carlo Borromeo e collegato con quello dei Martinitt e con il Pio Albergo Trivulzio. Ci restò sino a quasi vent’ anni.

Era una bambina molto timida e introversa, forse per la perdita del padre quando lei aveva solo sei anni e per il suo stato di ultima figlia. In collegio c’era un teatrino, usato successivamente dal Piccolo Teatro, e cominciò a cantare nel coro. Continuò gli studi con ragioneria, sempre nel collegio, ma la materia non la interessava. Ambiva al canto lirico, anche per superare la sua timidezza. Iniziò a guadagnare qualcosa con un lavoro part time mentre studiava pianoforte con lezioni private, esercitandosi sul pianoforte delle Stelline.

Trovandosi a cantare nella corale di Don Biella, dove andavano spesso cantanti solisti in pensione, fu notata la qualità della sua voce e le fu proposto di studiare seriamente il canto. Prese lezioni prima da Adelina Fiori e poi dalla grande Adelaide Saraceni, morta centenaria. Per la prima volta ascolta la voce della Saraceni in un CD del Don Pasquale, che io le passo dalla collezione di 31 CD di Schipa recentemente pubblicata. E prese lezioni di pianoforte e spartiti da Giuseppe Pais e Alberto Soresina. Dice la Fabbri: mi sono buttata a capofitto nello studio (Franca volutamente non si sposerà mai) aprendo la mente alla gioia del teatro e scoprendo man mano tutto l’ impegno necessario: il teatro richiede eccezionale equilibrio psicofisico e doti non comuni come l’ assoluta e costante padronanza dei propri mezzi tecnico-espressivi e la capacità di leggere la vicenda operistica, interagendo perfettamente con ogni componente del cast artistico, dai cantanti al direttore d’orchestra alla regia. Anche i costumi, a volte pesantissimi, sono un impegno gravoso. Tutto ciò fa il paio con la precisa volontà di abbandonarsi ad un sublime atto d’amore, ed è forse questa la vera misura del teatro dell’ opera, capace di spiegare il mistero di momenti d’incanto quasi sospesi, di attimi di estatica simbiosi tra il cantante e il suo pubblico.

 Dopo un paio d’ anni Franca cantò nei primi concerti, e debuttò in Fra Diavolo di Auber al Teatro Nuovo di Milano. Ebbe un’audizione da Emy Erede, grande manager dei rapporti musicali con l’ Europa orientale. La signora disse: ho per te moltissimo interesse, dammi la tua esclusiva. Poi le telefonò una notte, invitandola ad andare subito l’ indomani a Roma per un’ audizione con Luchino Visconti che cercava una Violetta.

Il suo repertorio non contemplava ancora Traviata, ma non esitò ad accettare. Ricorda che partì col rapido delle 8.15, portando con sé gli spartiti di Semiramide e Ugonotti. In via Salaria erano centinaia i cantanti accorsi per l’ audizione. Fra i membri della commissione giudicante erano, oltre Visconti, Giancarlo Menotti, Nino Rota ed altri. Terminata la prova il regista le disse semplicemente: può andare. Credendo di avere fallito, pianse, ma al ritorno a Milano la Erede le disse: Visconti vuole solo Franca Fabbri. Tornata quindi a Roma, su precisa volontà di Visconti, la Fabbri si sottopose ad un accurato trattamento di bellezza da Elisabeth Arden, non trascurando ovviamente la pettinatura a bandeau: Franca doveva calarsi subito nei panni di Violetta.

Le prove furono lunghe: due mesi. Sul palcoscenico Visconti fumava come un turco, invadendo di cicche il secchio che teneva accanto pieno di acqua. Impartiva direttive e mostrava alla giovane “Violetta”, servendosi lui del tenore, come baciare Alfredo, mentre i paparazzi, sornioni, scivolavano in punta di piedi qua e là tra le quinte in cerca di novità eclatanti. Da Visconti, dice Franca, ho imparato molto, è stato la mia università e guida per tutto il percorso canoro.

Il 20 giugno 1963 il grande debutto: con la Fabbri cantavano Franco Bonisolli e Basiola jr. Fu una giornata piena e memorabile. In teatro erano presenti molte autorità, tra cui il ministro Folchi, gli ambasciatori Ortona, Del Balzo, il generale dei carabinieri Di Lorenzo, l’ on. Pajetta, De Chirico, Wally Toscanini, la duchessa Acquarone, la contessa Villa Hermosa, Claudia Cardinale, Alida Valli, Franca Valeri, Marcello Mastroianni, la Falck e molti altri personaggi dell’ arte e della cultura convenuti da tutto il mondo.

Visconti disse: un’altra volta solo ho provato un’emozione come questa, quando qui ascoltai la Callas.

Franca ebbe giudizi estremamente positivi, fra cui ricordiamo:

–     Franco Abbiati: …Franca Fabbri, Violetta d’eccezionale slancio e rilievo passionale, ha cantato con pienezza di sorprendenti mezzi vocali

–     Eugenio Gara: voce anima

–     un critico di giornale: finalmente il teatro lirico ha trovato la sua Eleonora Duse

–     la Nazione: Edizione esemplare. Protagonista Franca Fabbri che ha doti vocali ottime, un animo, una duttilità d’espressione, un’intensità di dire e di accentuare in misura l’ emissione della voce.

Fu l’ inizio di una carriera durata venti anni, in cui ha cantato 40 opere, in particolare circa 200 volte la Traviata. Gigliola Frazzoni, in una telefonata del 3 giugno 2010, me la descrive come …un raggio di bellezza… strabiliante nella Traviata. La commissione RAI così la giudicò: voce molto interessante, timbro scuro, begli acuti, musicalità, temperamento, ricorda la Callas: aggressività caratteristica. La voce era molto estesa, tanto da permetterle di cantare anche la Regina della Notte. Imparava facilmente a memoria e non aveva problemi nelle sostituzioni: fu il doppio della Sutherland nella Semiramide e negli Ugonotti.

Qualcuno la definì una meteora. Forse, ma che ha brillato intensamente per tutto il tempo fra due sovrapposizioni successive di Giove e Saturno, ovvero vent’anni.

Il primo impatto con la Scala non fu felice. Dice la Fabbri: provavo a Firenze Semiramide. Il regista Puecher mi vide e mi propose un’opera di Britten “Il giro di vite” alla Piccola Scala. Accettai con gioia. Era il giugno del 1969. Le prove durarono un mese; tutto andò bene fino alla generale. L’indomani mattina ebbi una spiacevole sorpresa: mi svegliai con la febbre alta dovuta ad una brutta forma di broncopolmonite che si sarebbe protratta a lungo, costringendomi a rinunciare a tutte le recite in programma. In seguito seppi da un amico giornalista, incontratosi nella redazione del proprio giornale con il critico musicale Franco Abbiati, che quest’ultimo fu tanto deluso dalla mia forzata rinuncia, da picchiare con forza un pugno sul tavolo esclamando: “ senza la Fabbri, Britten è morto”.

Grazie al cielo ebbi modo, in tempi successivi, di riprendere quest’affascinante opera verista, e fui poi in grado di comprendere, o mi sembrò di capire, d’avere una certa attitudine a cogliere i molteplici aspetti dell’oggi musicale; d’avere una discreta musicalità verso il mio tempo e, forse, caratteristiche vocali adatte. Decisi così di percorrere con assoluta convinzione la strada del modernismo e della contemporaneità e mi diedi avidamente allo studio di ogni opera che mi venisse proposta, superando con impegno a caparbietà innumerevoli scogli e difficoltà anche tecniche. Mi cimentai in opere come IL ROSARIO di Napoli, il COUNT DOWN di Bettinelli su libretto di Madau Diaz, l’ORFEO VEDOVO di Savinio, le NOTTI BIANCHE di Cortese, L’AGANZIA MATRIMONIALE e UNA DONNA UCCISA CON DOLCEZZA di Hazon, IL SATIRICON di Maderna, AL GRAN SOLE CARICO D’AMORE, di Nono, e poi LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO, FILOMELA E L’ INFATUATO, MERLINO MASTRO D’ORGANI di Malipiero, e LA RIVA DELLE SIRTI, L’IDIOTA, PROCEDURA PENALE di Chailly, oltre a lavori di Shostakovitch, Hindemith, Ravel, Schoenberg, Chabrier ed altri.  

Fra le opere interpretate più amate, la Fabbri ricorda: Traviata, nelle due edizioni più importanti, quella realistica e romantica di Visconti, e quella surrealistica di Béjart; poi Lo frate ‘nnamorato, Un giorno di regno, Faust, Otello… A proposito di Così fan tutte, altro suo cavallo di battaglia, Franca ricorda la sua prima volta in America col debutto dell’opera mozartiana al Festival di Stanford. Fu un’esperienza nuova e gioiosa, là tutto mi appariva grande e luminoso: la natura, la vegetazione. Trovavo assai intriganti quei frutti tanto gustosi e appariscenti, quei cibi cucinati con fantasia di colori per la soddisfazione sia del palato sia della vista, e intorno un fiorire di gioventù in un piacevole contesto di giovanile vita universitaria e musicale. E qui posso notare come pochi anni dopo iniziavo anch’io a Stanford una lunga esperienza di ricerca in quel luogo dal cielo quasi sempre azzurro, dall’architettura spagnolo-messicana, dalle bionde californiane che si spostavano in bicicletta ed in pantaloncini corti; e pagando 25 centesimi si aveva una palla da lanciare ad un fantoccio di Nixon, erano gli anni del Watergate….

E seguono alcuni giudizi sulla Fabbri mozartiana:

–     New York Times: Taubman 24-7-65: Franca Fabbri as a Fiordiligi of vocal security and refinement is particularly impressive

–     Corriere della Sera: F. Abbiati 10-6-66: …guizzante e suasiva per freschezza di emissioni Franca Fabbri quale Fiordiligi…

–     Europeo, E. Gara 10-11-66:…una Fiordiligi dai morbidi suoni e dal signorile fraseggio….

Fra i direttori di orchestra che l’ hanno diretta ricorda Abbado, Muti, Sanzogno, Cillario, Erede…. Con i colleghi ha avuto rapporti superficiali e quindi di nessuno ha un particolare ricordo. Ma deve averlo lasciato agli altri, altrimenti Renato Cazzaniga non me ne avrebbe parlato con tanto entusiasmo. Non ha mai cercato di avere registrazioni del suo canto. Il mio archivio, afferma con estrema semplicità, è dentro di me e mi basta. Ma poi aggiunge: è vero che, ripensandoci, provo un certo rammarico per aver sacrificato qualcosa al pubblico appassionato… Va detto che nel corso della carriera la Fabbri ha avuto significativi riconoscimenti tra cui il Premio Lions alla Scala. Ed ora si dichiara riconoscente a chi scrive per aver saputo ridestare i ricordi della sua breve stagione di musica, canto e teatro, strappandoli con capacità intellettuali e giusta sensibilità al mio volontario silenzio e all’indifferenza in generale.

Franca ha anche avuto un grande amore per i lieder, che ha cantato molto in un momento storico in cui, forse, in Italia era l’ opera a godere delle maggiori attenzioni. E’ recente il ritrovamento di una registrazione dove canta Wolf, Strauss e Schubert al festival di Martina Franca del 1973. Sarà pubblicata?

Negli anni 80 decide di ritirarsi dalle scene per dedicarsi interamente alla mamma anziana e molto malata ed alla sorella disabile e sordomuta. Ma i veri amori non si dimenticano mai e rimasta, nel tempo, sola, recupera il palcoscenico questa volta come voce recitante in un ricercato repertorio di melologhi, poesie, testi poetici di autori classici, opere di ispirazione classica come il Bhagavadgita, in sanscrito (è una parte del Mahabharata, risalente a circa il 3200 avanti Cristo, dialogo fra l’arciere Arjuna e Krishna, penultima reincarnazione di Vishnu…. ), con giudizi anche qui positivi della stampa. E’ possibile sentirla in un recente CD, dove recita in melologhi di Schumann, Liszt e Strauss, con dizione perfetta, senza smancerie, senza forzature, lasciando risuonare le nude parole, come si legge nella recensione in Musica, 217. E nelle recensioni di vari giornali si legge: …a tratti triste e malinconico, a tratti appassionato, a tratti dolce e pacato…. perfetta modulazione della voce….con la sua bella voce piena di toni e di colore ha dato forza, passione, tenerezza alle parole di Santa Caterina e Santa Teresa di Lisieux….

Ringrazio tanto la Fabbri e mentre mi accingo a salutarla, dal suo sguardo traspare ancora una punta di quella sua innata e accattivante timidezza.

Le foto che seguono vengono dalla collezione di Franca Fabbri. La prime due si riferiscono alla Traviata in cui debuttò a Spoleto nel 1963.

collezione Franca Fabbri-Traviata collezione Franca Fabbri-Traviata2

Franca Fabbri

22 – PARMEGGIANI ETTORE

Maestro di Luigi Cestari, che mi ricordò la Scala nei suoi anni d’oro

Ettore Parmeggiani è stato un grande tenore italiano attivo sulle scene per quasi trent’anni, e poi alla Scala per sei anni come capo della claque. Su di lui pare non esistano biografie e sono poche le notizie nelle enciclopedie. Probabile motivo di questa dimenticanza non è una scarsa considerazione del suo valore, ma la quasi completa mancanza di registrazioni della sua voce. Infatti i nastri con le sue registrazioni conservati presso l’edificio della Columbia a Milano, distrutto da un bombardamento (a Milano circa il 10% degli edifici fu distrutto, fra cui la casa dei miei nonni) andarono tutti perduti. Qui diamo alcune informazioni raccolte da persone che lo hanno conosciuto, in particolare da Luigi Cestari, allievo e poi membro della claque, e due signore legate alla claque ed alla famiglia del tenore. Parmeggiani fu soprattutto tenore wagneriano, ma cantò altre opere, anche di Puccini; era considerato come uno dei tenori più eclettici.

Il mio interesse per Parmeggiani è nato da un incontro con Luigi Cestari. Questi mi è stato presentato da un antico collega del CISE, il centro di ricerche nucleari dove lavorai i primi sette anni della mia carriera, l’ ingegner Riccardo Bonalumi, fra i massimi esperti nel settore nucleare, e appassionato musicofilo.

Cominciamo con alcune citazioni della letteratura su Parmeggiani.

Dalla Enciclopedia LA MUSICA, DIZIONARIO, Utet,   1968:

Parmeggiani Ettore. Tenore italiano (Rimini, 17-viii-1895, Milano 28-1-1960). Dopo avere studiato al Liceo musicale di Pesaro [secondo Cestari invece al Conservatorio di Pesaro Alessandro Bonci], si perfezionò a Milano e nel 1921 esordì al Dal Verme, dove per qualche tempo era stato corista. Intraprese una fortunata carriera che lo portò nei maggiori teatri italiani, fu attivo soprattutto alla Scala, ove apparve dal 1928 al 1942. Abbandonò le scene nel 1948 e fino alla morte fu capo della claque della Scala. Versato sia nel genere lirico che in quello drammatico, fu tra l’ altro ottimo interprete wagneriano (Lohengrin e Parsifal). Aveva un repertorio vastissimo che comprendeva opere di Weber (Freischütz), Mascagni (Isabeau e Nerone), Puccini (Madama Butterfly), Catalani (Wally), Pizzetti (Fedora e Debora e Jaele), Gluck (Ifigenia in Tauride), Zandonai (Francesca da Rimini), Verdi (Mac Beth), Rimskij-Korsakov (Sadko), Ghedini (Re Hassan) e altri. Partecipò alla prima esecuzione del Nerone di Mascagni (Scala, 1935) e Lucrezia di Respighi (ivi, 1937).

Nel libro di Rasponi The last prima donnas, pubblicato nel 1985 con le interviste a 55 stelle della lirica, raccolte fra gli anni trenta e settanta del Novecento, Parmeggiani è citato da Iris Adami Corradetti:

I was invited to repeat Liù in Varese and Turin, and in the latter city I also sang my first Elsa, with the fabolous Ettore Parmeggiani, the greatest Lohengrin of those days…

Nella raccolta di 800 lettere del maestro Gino Marinuzzi, selezionate dalla figlia Lia Cei Marinuzzi fra circa 5000 che tuttora esistono, apparsa nel 1995 presso Mondadori, Parmeggiani è citato tre volte

–    a pag 555: si potrebbe affidare la parte di Sadko al tenore Parmeggiani, che ho sentito stamane e che ha delle belle qualità specialmente nel registro medio

–    a pag 562: infine per Sadko terrei presente Parmeggiani e Melandri. Il secondo non ha il timbro di voce del primo….

–    a pag 717: mi pare di averle dato tutti i nomi della Lucrezia, lasciando in sospeso il solo baritono. Comunque eccole l’elenco che nelle due parti principali corrisponde ai di lei desideri. La voce: Stignani, con doppio Elmo. Lucrezia: Caniglia con doppio Carbone. Servia: Marcucci con doppio Simionato. Bruto: Parmeggiani, con doppio Costa Lo Giudice…

Chi scrive, dopo aver copiato queste righe dal libro di Marinuzzi, ha sentito al telefono Giulietta Simionato, ricoverata in clinica sul lago di Nemi per accertamenti, e sempre lucida e affascinante. Giulietta gli ha detto che bene ricordava Parmeggiani, non solo come capo della claque (mai da lei pagato), ma per averlo conosciuto in recita, forse nel caso sopra indicato, e di vederlo chiaramente nella sua memoria se chiudeva gli occhi. Parmeggiani come capo della claque è ricordato da molte stelle della lirica del primo dopoguerra, come Prandelli, Bergonzi, Olivero, Vinco, Loforese….

Da una presentazione di opere in possesso di Cestari si legge che debuttò il 18 dicembre 1922 – notasi la differenza di data con l’ enciclopedia UTET – al Dal Verme cantando la Tosca con immenso successo. Che trionfò a Parma con il Lohengrin. Che cantò in Olanda, Malta e Tripoli. Che era possessore di una voce signorile delle più belle che si conoscano….che conosce tutti i segreti dell’ opera di Wagner, alla cui interpretazione molto si addicono la raffinatezza della sua arte, la sua voce che è calda, profonda, e il suo metodo di cantare con nobiltà, con sentimento….la bellezza della sua voce passionale scende diritta al cuore di chi l’ascolta ….pochi artisti hanno saputo portare oltre il proprio Paese tanta fama e magnificenza di voce…sarà nel nostro Comunale…un magnifico Lohengrin…Frasi forse esagerate, per pubblicizzare il Lohengrin del 24-29 giugno 1933-XI al Teatro Comunale Angelo Masini di Faenza, dove con lui cantavano Maria Caniglia, come Elsa, ed Elvira Casazza, come Ortruda, direttore Antonino Votto. Prezzo L 4 al loggione, 18 alle poltrone, riduzioni ai militari di bassa forza, agli studenti del GUF…..E il buffet della stazione sarebbe stato aperto per i treni in partenza dopo lo spettacolo, con cestini da viaggio di L 7.50. Altri tempi, e per certi aspetti da rimpiangere.

Da un altro testo sui cantanti romagnoli si legge che cantò anche in Brasile e a Las Palmas (e qui forse scelse l’ Hotel Santa Catalina, il mio preferito ….), e che l’ultima sua performance fu il 16 marzo 1948 al Bellini di Catania con la Walkiria. Aveva cinque case a Rimini che furono distrutte nei bombardamenti, con la perdita di spartiti, pianoforti ed altro.

Fu lui a dare il via agli applausi che salutarono la prima comparsa della Callas alla Scala.

Passiamo ora ad alcuni ricordi nella memoria di Luigi Cestari, nato nel 1932, e residente a Segrate (dove è morto nel 2010… sofferente grave di un enfisema). Cestari, figlio di un orchestrale che suonò anche sotto la direzione di Toscanini, ebbe sin da ragazzo una educazione musicale e sviluppò un interesse per il canto lirico. Aveva voce di tenore, iniziò una carriera cantando una decina di opere in teatri di provincia, ma dovette smettere dopo un’operazione alla gola. Fece quindi parte della claque della Scala diretta da Parmeggiani, avendo il privilegio di potere ascoltare in un certo anno 187 opere (comprese le prove), di cui sette dove cantava la Olivero (la sola la cui voce poteva far passare un brivido per la schiena). Quanto segue è basato su una intervista fatta domenica 6 luglio 2008 presso l’ Ospedale di Cassano sull’Adda, dove era ricoverato per insufficienza respiratoria.

Comincia ricordandomi che Parmeggiani gli regalò lo spartito di una Butterfly, ora un po’ bruciacchiato nell’incendio che gli distrusse il negozio con tanti ricordi musicali, spartito dove appare la dedica di Puccini alla Regina Elena. Dice che Parmeggiani era un cantante dalla bella e chiara voce.

Come lo conobbe? Cestari frequentava il cosiddetto Quarto d’ Ora del dilettante al teatro Smeraldo, dove cantava da dilettante, senza avere mai studiato o conoscere la tecnica del canto. Nel pubblico qualcuno lo notò e disse a suo padre ( primo violoncello al conservatorio di Adria) che aveva una bella voce. Introdotto a Parmeggiani, questi gli chiese di cantare Vesti la giubba a tutto volume, commentando poi che non andava troppo bene. Poi un brano dalla Marta, che giudicò meglio eseguito, dicendogli di lasciar perdere i Pagliacci. Gli mostrò la sua collezione di circa trecento spartiti e gli disse di prendere quelli che voleva. Cestari gli chiese il costo, Parmeggiani rispose pensa alla salute! E poi disse la voce c’è, ma canti come un cane. Era il 1951, Parmeggiani ormai non cantava più (il padre di Cestari lo aveva sentito cantare con la Pampanini), ma per sette anni gli fece lezioni, tutti i giorni, salvo la domenica. Ogni tanto gli chiedeva di cantare a qualche concerto in posti secondari o a concorsi. Lo mandava anche a cantare a sposalizi, come a quello della figlia del padrone dell’ Hotel Gallia. Il suo repertorio era di una decina di opere, varie di Puccini, e poi la Traviata, la Lucia, il Lohengrin. Ha anche vinto un microfono d’oro.

Ho poi cantato una decina di volte, al teatro Grande di Brescia, al Comunale di Thiene, e, a casa di Parmeggiani, dove incontrai Giulietta Simionato, che allora cantava alla Scala con Di Stefano. Parmeggiani mi chiese di cantare con lei nel duetto finale della Carmen, fatto che ricorderò fin che campo! Giulietta mi diede una sua foto con un doppio autografo. Anche ricordo un incontro con la Melis, che mi ricordò di essere stata la prima interprete della Fanciulla del West con Caruso.

Ricordo che una volta eravamo gli ultimi a uscire dalla Scala, dove era stato dato il Lohengrin diretto da Furtwängler, ed eravamo saliti su un tram per piazzale Loreto. Oltre a noi c’era un solo passeggero. Parmeggiani scherzando disse: sai cosa mi è piaciuto? Quando è uscita l’ oca. L’ altro passeggero corregge: era un cigno. E Parmeggiani ribatte: ma lei conosce l’opera? E quello ne descrive tutta la trama. Sceso Parmeggiani, Cestari dice all’ altro: sa con chi ha parlato? Con Ettore Parmeggiani….

Parmeggiani aveva parecchi studenti, una trentina, sia uomini che donne. Aveva fra i suoi studenti anche…. Del Monaco, cui dava occasionali lezioni. Questi aveva fatto il conservatorio a Pesaro dove aveva usato il banco, su cui stava inciso il nome di Parmeggiani.

Parmeggiani morì ancora giovane, a 65 anni, di una trombosi; gli ultimi anni suoi erano stati dolorosi, per la perdita della figlia e del padre in un incidente stradale dove un camion aveva sfasciato l’ auto in cui viaggiavano (si salvò il genero con la bimba di otto mesi). A tarda età ebbe anche un figlio, che morì giovane.

Smesso di cantare era divenuto il capo della claque alla Scala, dove da molti è ricordato, a differenza di altri dopo di lui, come una persona assai corretta. La claque era composta da una quarantina di persone, molti suoi allievi. All’ inizio dava indicazioni di massima su come intervenire per aiutare i vari cantanti. La Callas in particolare aveva bisogno di aiuto quando attaccava un mi bemolle che non riusciva a tenere bene. Lui dava un segno e i quaranta seguivano.

Era persona di carattere aperto e cordiale (qualcuno dei miei intervistati lo ricorda propenso ad un linguaggio pesante, certo non unico nel mondo operistico, si ricordi un Molinari Pradelli, o una Fedora Barbieri…), ma assai serio a livello musicale. Aveva voce di grande volume, arrivava facilmente al si naturale, non sempre al do. Belli i suoi pianissimi e le sue filature. Timbro corposo e squillante. Ricordiamo il giudizio sul favoloso Parmeggiani di Iris Adami Corradetti. Fra le opere cantò tutto Wagner, primo tenore italiano dell’epoca per questo compositore. Fu certamente il Lohengrin italiano più attivo e popolare; la sua interpretazione non aveva forse le arcane, eteree risonanze di quella di Pertile, né la malinconica nobiltà di quella, considerata ormai mitica, di Borgatti, ma si faceva ammirare per la signorile fierezza del portamento scenico e per l’ argenteo metallico di una voce sonora e vibrante. Amava poi Mascagni nella Isabeau e nella Iris, meno nel Nerone. Fra i colleghi non aveva preferenze e aiutò Panerai nei suoi inizi. Era però molto amico della Simionato, che debuttò cantando con lui nella Kovancina.

Debuttò con Tosca al Dal Verme di Milano e poi al Regio di Parma con Lohengrin. Prima del debutto in quest’opera, assai impegnativa, sentì dalla finestra dell’ albergo un gruppo di giovani che cantavano il racconto del Lohengrin. Ne fu impaurito, temendo di trovarsi davanti ad un pubblico troppo esperto e severo, e pensò di rinunciare all’opera. Convinto a cantare, fece un Lohengrin strepitoso, tanto che il Regio gli donò il costume. In hotel poi trovò Toscanini che gli disse tenore, quest’ inverno si faccia vedere alla Scala. E nel 1928 cantò con Toscanini nel Franco cacciatore di Weber. In quest’opera ebbe qualche difficoltà con un si bemolle da ripetere, problema che risolse con il paziente aiuto di Toscanini (il cui rapporto con i cantanti, e con i solisti, fu sempre di attenzione e collaborazione, al di là degli scatti d’ira e di parole non da novizia).

Un altro episodio da ricordare è che a Montagnana Pertile gli chiese di sostituirlo davanti ai suoi concittadini. Una sostituzione impegnativa, data la grandezza di Pertile, tenore preferito di Toscanini. Il compenso era di 50 lire. Terminato il concerto tenutosi con successo andò in hotel a restituire a Pertile le 50 lire.

Di Parmeggiani ufficialmente non esistono registrazioni, probabile motivo per cui non è citato fra i circa seicento cantanti nel libro di Stinchelli Stelle della lirica. Sicuramente la maggior parte fu distrutta nel bombardamento dell’edificio che ospitava la documentazione della Columbia (similmente si sono perse le registrazioni di Marinuzzi, salvo una Forza del destino, nel bombardamento del treno che le portava in Germania).

Visitando un sito internet dove era possibile lasciare commenti o richieste, feci presente la mia intenzione di scrivere un articolo su Parmeggiani, chiedendo a chi ne sapesse qualcosa di farsi vivo. Dopo qualche settimana mi telefonò un signore dicendo che una sua parente aveva fatto parte della claque di Parmeggiani. La richiesta di contattarmi gli era venuta da un conoscente in America! Fu così che andai a trovare le due signore a Cinisello Balsamo, non lontano da casa mia. Una è Bruna Saini, la cui sorella Bianca, da non molto deceduta, aveva fatto parte della claque dai 12 ai 20 anni. Bruna era allora una frequentatrice della Scala, e aveva poi sposato un nipote di Parmeggiani. Ricorda che il lampadario della Scala era allora provvisorio, in materiale rosso. Sua figlia Norma Pellegrino (Norma nome che fu suggerito da Parmeggiani, padrino al battesimo), era presente all’ incontro. Altri parenti esistono a Rimini, fra cui l’ avvocato Marina Benzi che pare possegga dischi con la voce di Parmeggiani dell’ anteguerra, una rarità che sarebbe bene riportare in commercio su CD. Non ho potuto incontrare i parenti di Rimini.

Dalle due signore ho le seguenti informazioni:

Nella claque, oltre alla sorella, Bruna ricorda bene Luigi Cestari, e molto allegro, e Gemma Mandolini, figlia del maestro da cui Parmeggiani studiò; e pare che lei avesse un debole per Parmeggiani

–    crede che la claque consistesse di una ventina di elementi (Cestari dice una quarantina), quasi tutti studenti di Parmeggiani; e ricorda che ben pochi studenti saldavano il conto! I membri della claque non erano pagati, e lui stesso spesso non chiedeva nulla. Nulla in particolare ebbe dalla Callas (ma da Meneghini pare di sì….stando alla musicologa Rosa Rodriguez e a Cestari stesso); molto generoso era Di Stefano, che una volta gli diede anche una sua boccetta di profumo, avendo visto come lo apprezzava. Suo compito era dare l’attacco per gli applausi. Non hanno ricordi di fischi.

–    Parmeggiani era di carattere allegro e bravissimo nel raccontare barzellette; Bruna ne ricorda una ma non la dice in quanto troppo…sporca

–    Parmeggiani non disdegnava bere, anzi prima di cantare beveva un poco, affermando che facesse bene alla voce

–    era molto amico di Di Stefano, che almeno una volta accompagnò al casinò di San Remo

–    era uno di 13 figli, che sarebbero stati 30 se la madre non ne avesse perduti 17….e molto si occupò dei fratelli, aiutandoli in vari modi, ed anche nascondendo alla moglie l’ esatto ammontare dei suoi guadagni

–    chiamato a Parma papà del Lohengrin non si faceva pubblicità, non rispondeva alle lettere dei fans, andava a teatro in tram

–    conferma che Gianni Raimondi fu da lui scoperto durante un viaggio in auto nella Emilia Romagna per trovare nuovi talenti nell’ immediato dopoguerra, essendocene a Milano scarsezza. Dopo avere girato invano senza trovare voci interessanti, sulla via del ritorno si fermò in una trattoria e chiese al gestore se nel paese ci fossero giovani dalla bella voce (chi oggi farebbe una domanda simile?). Questi gli disse: vada in cucina, i due ragazzi che lavorano là cantano sempre. Andò, li sentì, e ripartì con Gianni Raimondi (non ho potuto avere da Raimondi una conferma, quando gli telefonai era assai malato e morì poco dopo)

–    quasi sempre fedele alla moglie…. ma fu una volta sorpreso a letto con una cantante. Nome di lei e conclusione della faccenda sono temi di ricerca

–    improvvisava con facilità poesie nelle riunioni conviviali, dove rifiutava di cantare. Una volta cantò O sole mio; era estate, le finestre erano aperte e si radunò subito una piccola folla

–    viaggiò poco all’ estero, ricorda viaggi in Svizzera, Spagna ed Egitto, ma non quello in Unione Sovietica dove con lui partì una selezione di cantanti italiani (fra cui, se non vado errato, il soprano Pia Tassinari ed il tenore Giuseppe Zazzetta, al momento di scrivere queste note vive a 97 anni presso la Casa Verdi di Milano ). In realtà viaggiò anche in Brasile, Olanda, Libia….

Le due signore posseggono un album di ritagli di giornali, ingialliti dal tempo; da un ritaglio non identificabile riporto il seguente elenco di opere del suo repertorio, di cui non posso controllare accuratezza e completezza, e dove in grassetto indico le opere di Puccini:

ADRIANA LECOUVREUR, AMICO FRITZ, ANIMA ALLEGRA,

ANNA KARENINA, BOHEME, BUTTERFLY, CAVALLERIA RUSTICANA, CAVALIERE DELLA ROSA, CREPUSCOLO DEGLI DEI, FEDORA, FEDRA, FRANCESCA DA RIMINI, GIANNI SCHICCHI,GIOCONDA, GIULIETTA E ROMEO, IL FIGLIOL PRODIGO, IL FRANCO CACCIATORE, I MAESTRI CANTORI, IN TERRA DI LEGGENDA, IRIS, ISABEAU, LEGGENDA DEL PONTE, LOHENGRIN, LORELEY, LUCIA, MANON, MARIA DI MAGDALA, NADEL, NERONE, ORO DEL RENO, RACCONTI D’HOFFMANN, RIGOLETTO, SIGFRIDO, SILVANO, TABARRO, TANNHAUSER,

TOSCA, TRAVIATA, TRISTANO E ISOTTA, VASCELLO FANTASMA, WALKIRIA, WALLY

Quindi 10 opere di Wagner, 5 di Puccini e solo 2 di Verdi. Tuttavia il necrologio di Eugenio Montale, apparso sul Corriere della Sera del 29-30 gennaio 1960 in occasione della sua scomparsa afferma che cantò non meno di 100 opere essendo quindi, dopo Pertile, il più eclettico dei tenori. Ma il baritono Taddei è forse quello con il maggiore repertorio, grazie anche a una sessantina di anni di carriera.

Le due foto che seguono provengono dalle due signore.

baritono Giuseppe Taddei baritono Giuseppe Taddei 2

 

 

 

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